Un tempo, riconoscere un sommelier era facile: giacca, gilet, postura impeccabile, sguardo sicuro. Una figura quasi rituale, che arrivava al tavolo con un cavatappi professionale e un vocabolario tecnico dal sapore francese. Oggi, però, le cose sono cambiate. Il nuovo esperto di vino può avere tatuaggi vistosi, sneakers ai piedi e un linguaggio diretto, privo di fronzoli. Spesso, la sua competenza non è scritta su un diploma, ma affinata in anni di servizio, degustazioni e vendemmie. “Ho imparato di più lavorando in vigna e in cantina, spesso in una lingua che non è la mia, su come degustare, come prendersi cura dell'uva, come si produce un vino di qualità, che da qualsiasi libro di testo”, scrive Eliza Dumais.
Il titolo conta ancora?
Formalmente, “sommelier” è un titolo professionale, non un grado accademico, nota in questo interessante articolo la nota penna di Decanter Eliza Dumais. Ma per decenni si è creduto che l’accesso al ruolo passasse inevitabilmente attraverso certificazioni come quelle del WSET o della Court of Master Sommeliers. Oggi, invece, le regole non sono più così rigide. Ci sono professionisti in grado di riconoscere un vino alla cieca con la stessa abilità di un “Master Somm” – senza aver mai frequentato un’aula. E non è solo una questione di capacità: per molti, il titolo non definisce più la qualità del servizio.

Un mestiere in trasformazione
La riflessione di Dumais si estende poi all’evoluzione della professione: sempre meno ristoranti, soprattutto al di fuori dell’alta cucina, mantengono una figura “ufficiale” di sommelier. Nei locali contemporanei troviamo figure ibride: camerieri con una passione travolgente per il vino, gestori che curano la carta in autonomia, baristi che selezionano bottiglie con lo stesso criterio di un buyer esperto. Il termine “sommelier”, per alcuni, è diventato troppo elitario per descrivere questa nuova generazione di professionisti.

Accesso e privilegio
La formazione ufficiale resta preziosa: strutturata, dettagliata, in grado di dare un bagaglio tecnico completo. Ma non tutti hanno le risorse economiche o le opportunità per affrontarla. Corsi e certificazioni costano, e richiedono tempo libero che non sempre è disponibile a chi lavora in ospitalità. Così, nasce una domanda legittima, ben riassunta dalle parole di Basile Al Mileik (esperto di vini di Manhattan) riportate ancora nel testo di Decanter: “Il presunto sommelier ha ottenuto il titolo per passione o perché aveva accesso e privilegi? E tutta questa conoscenza specifica lo aiuterà davvero a comunicare con gli ospiti su ciò che desiderano bere? Non sono sicuro che al grande pubblico importi ancora davvero dei titoli di studio. Usano il termine sommelier solo per riferirsi a chi offre un buon servizio di vini".

La scuola della vita
Molti professionisti del vino si formano fuori dalle aule: parlando con produttori alle fiere, partecipando a degustazioni, facendo vendemmie in Italia o all’estero. Queste esperienze insegnano come degustare, riconoscere i difetti, capire il territorio e leggere un’annata. Non sono nozioni “impacchettate” in un manuale, ma competenze vive, frutto di contatto diretto con la materia. Per chi lavora in sala, il miglior corso è spesso la reazione dei clienti di fronte a un abbinamento ben riuscito.

Due scuole, stesso obiettivo
Questo non significa che corsi e diplomi siano inutili. Ci sono appassionati che li frequentano per pura curiosità, senza alcuna ambizione professionale, e che trovano enorme valore nell’ordine e nella chiarezza del percorso formativo. Altri, invece, arrivano allo stesso livello di competenza attraverso esperienze sul campo. Il punto è che entrambe le vie possono formare eccellenti professionisti. La differenza la fa la capacità di ascoltare e capire cosa vuole bere chi hai di fronte.

Oltre le etichette
In un’epoca in cui il vino si apre a un pubblico più vasto, forse è il momento di alleggerire il peso delle definizioni. Che sia “sommelier”, “wine steward” o semplicemente “tipo del vino”, ciò che conta è la capacità di trasformare un bicchiere in un’esperienza memorabile. Il resto – diplomi, spille, gerarchie – è un dettaglio secondario. In fondo, se ti piace quello che bevi, la missione è compiuta.