Come si mangia nei ristoranti stellati? Lo abbiamo chiesto a 10 gourmet italiani, ciascuno dei quali ha citato un ristorante e una parola chiave.
I Gourmet
“Gourmand e gourmet: qualificativi che designano uno colui che ama la buona tavola, l’altro chi sa sceglierla e apprezzarla”, recita il Larousse Gastronomique. Eccolo qui, allora, il gourmet. Per antenato il gromet, garzone del cantiniere o valletto incaricato di mescere i vini (ma c’è chi tira in ballo l’italiano “grumo” o l’olandese “geur”, con riferimento a odori, sapori delle carni e bouquet dei vini). Oggi è piuttosto un collage di volti chini sopra il piatto, con le narici aperte sul mulinello del vino: l’impiegato dalle pause pranzo raffinate, il collezionista di tre stelle, la grande dame e l’imprenditore paraprofessionisti del settore, il giovane che rompe il salvadanaio a cucchiaiate. Una compagine balzata agli onori della gastronomia, in questi tempi di citizens critics.Chiara Agostinelli, Cliente Ideale per la Guida Espresso 2017
“Sono convinta che non sempre la stella equivalga a una maggiore qualità. Frequento ristoranti non stellati, dove qualità di servizio e tecnica sul piatto mi lasciano di stucco. Se mi alzo mi rassettano o cambiano il tovagliolo e al rientro mi riaccompagnano al tavolo, come in un tre stelle. Quindi dovremmo essere tutti meno schiavi del luogo comune: ogni pasto è un film nuovo e l’empatia conta moltissimo. Se c’è una cosa che mi dà fastidio, è la continua domanda: ‘Come va?’. Con riferimento alla pasticceria, di cui sono cultrice, in un ristorante stellato mediamente la qualità è leggermente inferiore e risulta arduo trovare un continuum con il salato: il famoso pensiero che sta sotto. Perché molti cuochi non sentono il dolce come proprio oppure le mani sono diverse. Che si reinterpretino i classici o si azzardino ricerche d’avanguardia, come la cozza dolce di Dina, chef Alberto Gipponi, l’imperativo resta sempre l’alleggerimento”.
Felice Marchioni, Cliente Ideale per la Guida Espresso 2018
“Sono tavole da cui non mi sono mai alzato men che soddisfatto. Il segreto secondo me sono i primi e gli ultimi quindici minuti, insomma l’accoglienza, che può rendere indimenticabile anche un pasto senza picchi: penso al sorriso che ti fa sentire atteso e, perché no, a un omaggio simbolico. Il posto in cui mi hanno coccolato di più in questo senso è stata la Francescana, anche se resto aperto a nuove esperienze. Sono già stato dodici volte e non vedo l’ora che arrivi la tredicesima”.
Coniugi Barbarossa, Clienti Ideali per la Guida Espresso 2019
“Dipende anche dai numeri, a 3 sempre benissimo. Rispetto al passato, più che di miglioramenti parlerei di cambiamenti. Nel 1980 da Gualtiero Marchesi ho goduto come un riccio. Erano i tempi dei grandi, come il mio maestro, Guido da Costigliole, che faceva mangiare solo chi prenotava. Aveva una cantina tale, che se fosse scoppiata una guerra mi ci sarei fiondato. Oggi ci sono altri mezzi, la tecnica è cresciuta, le contaminazioni sono all’ordine del giorno. Ma molti chef sono diventati imprenditori più che cuochi, fanno circo. Io quando vado al ristorante e spendo certe cifre, voglio trovarli presenti. Mi è successo da poco di mangiare da uno di questi ‘consulenti’, lui non c’era, mi hanno servito la carne marcia, mi hanno tolto il tovagliolo al momento sbagliato. Ho scritto una lettera di fuoco. Mentre l’Enoteca di Canale ha una stella, ma Palluda è un grande; a Piazza Duomo se telefoni per prenotare e Crippa non c’è, te lo dicono”.
Piero Benvenuti, imprenditore di Firenze
“Ti risponderei: si mangia bene, ma con varie differenze. Io distinguo tre categorie: ristoranti stellati d’albergo, di famiglia e storici. I piatti seguono, con l’accento sull’ecumenismo, sulla ricerca, sul comfort e la francofilia. È interessante anche come si beve. E direi che di solito si beve poco, perché i ricarichi con pochissime eccezioni non consentono di divertirsi. Si arriva a moltiplicare per 7, 8 e anche 9 il prezzo base. Poi ci sono i pochi stellati con la cantina in conto vendita, dove ci scappa qualcosa in più. Trovo che molte carte siano troppo ampie, per paura di prendere una posizione e per una certa coazione ad aggiungere. Le rifarei in chiave smart, con una rosa ridotta che giri e ricarichi più contenuti. Ma l’ideale sarebbe bere al bicchiere. E dopo la prima visita in un ristorante, che serve a conoscere la storia, se ci si affida a un carta bianca il percorso d’abbinamento è d’obbligo. Ricordo un Porto ormai sul viale del tramonto, resuscitato da Anna Paclet, sommelier dell’Ora d’aria, con un’ostrica a fianco”.
Fiorello Bianchi, general manager di Cantù
“Frequento ristoranti di tutte le fasce: la stella non è in alcun modo una discriminante per la scelta. Mi interessa maggiormente lo scouting, perché ho notato che gli chef più giovani osano, rischiano, giocano di più anche a livello gustativo, in campi difficili come l’acido e l’amaro. Dai tre stelle in giù l’impostazione resta invece abbastanza classica, per quanto i livelli di esecuzione siano eccelsi. Sono piatti perfetti, armonici, equilibrati, valorizzati dal servizio, non necessariamente interessanti per il mio palato, che cerca sensazioni nuove. È anche vero che oggi tante giovani stelle sono meno ingessate del passato, penso a Piras, Caranchini, dal Degan e ai Bros. E uno come Uliassi può emozionare tutti, perché investe nella ricerca e nell’evoluzione. Ultimamente ho scoperto (fra virgolette) Gipponi, di cui apprezzo l’approccio filosofico e lo storytelling, e i ragazzi di Saur a Barco; poi ci sono Gorini, Ambrosino e Guidara, che adoro. Tutto il contorno, dall’argenteria alle coreografie di sala, non mi manca, anzi prediligo un servizio veloce”.
Alberto Delta, tecnico elettronico di Savona
“Come si mangia nei ristoranti stellati? Dipende dal contesto, dal momento, dall’influenza che ha la sala. Mediamente bene, anche se in certi casi la stella, soprattutto se recente, può condizionare negativamente la cucina, nel momento in cui il cuoco rischia di sedersi e la tensione di calare. Ho due figli piccoli, Pietro e Giovanni, e ho sempre desiderato che conoscessero questo mondo. Quindi, se sono con me, prima di prenotare in questi tempi di ‘adult only’ faccio qualche ricerca. Non si tratta di avere menu dedicati, basta che in carta ci sia qualcosa di adatto e che l’atmosfera della sala sia ‘bimbo friendly’. In questo senso Piero Bregliano da Come a Casa Ospedaletti è stato insuperabile”.
Gianni Revello, esperto d’arte di Genova
“Si mangia in tutti i modi, mediamente bene, talvolta in maniera eccezionale. Non esiste una regola assoluta, ma tendenzialmente è meglio quando i cuochi sono ancora in tensione creativa. Qualcosa che raramente dura per tutta la vita. Un gourmet si accorge subito quando un cuoco sta crescendo, sta tirando fuori uno stile e un carattere, e quando invece quello stile sta iniziando a diventare manierista. Quindi le aspettative virano sulla conferma e per nuovi stimoli si cercano giovani, non giovanissimi, perché occorre tempo per sviluppare una personalità. Gli artisti a 20 anni possono essere folgoranti, in cucina è più complesso. Bob Noto diceva con qualche ragione che di solito il meglio arriva prima dei 35 anni. A parte i cuochi non cuochi, come Bottura e Adrià, i quali hanno un motore di ricerca tutto loro, che si autoalimenta. Sono quasi macchine intelligenti. Il livello italiano è più o meno lo stesso della Francia ed è superiore alla media spagnola, statunitense ed europea in genere. Ma anche il Giappone è straordinario”.
Davide Ribotta, imprenditore di Torino
“Si mangia bene: il livello varia da una semi trattoria amabile a ristoranti di fascia superiore. Nel 2018 solo 2 stellati mi hanno deluso, fin quasi al raccapriccio. Con più stelle poi sono sempre stato benissimo: io mangio per piacere, anche due volte al giorno, talvolta fino alle 4 di mattina. All’estero conosco molto bene New York, dove la varietà di offerta è imparagonabile all’Italia e il livello sempre altissimo. Si trova di tutto. L’altro posto incredibile sono le grandi città orientali, come Hong Kong e Shangai. È difficile mangiare una cucina italiana elegante come quella di Bombana da noi, dove nessuno fa più i piatti della tradizione a livelli così alti. Ma le sue pappardelle al ragù di agnello non le scorderò mai, mi sentivo morire. Anche perché i migliori tartufi del mondo li ho visti a Hong Kong. Immagino che anche in Italia crescerà la varietà, nei nostri limiti, perché deve cambiare anche la clientela. Nel servizio direi che abbiamo il nostro stile, più informale, e anche le nostre carte dei vini possono essere eccellenti, ultimamente con tanti naturali, come nel resto del mondo. Dove possiamo crescere è nella scelta dei bicchieri: al Celler de Can Roca ho avuto un wine pairing da 20 vini, dove il calice più scarso era uno Zalto”.
Stefano Rossi, fisioterapista di Bologna
“Secondo me si mangia bene, il livello è alto. Penso a Romito, Bottura, i Santini, Uliassi, Guido, Abocar… Mi è capitato anche di trovarmi male, ma solo sporadicamente. Forse in cantina si può crescere, ma in generale anche il rapporto qualità/prezzo è corretto. La Michelin resta una garanzia. Il cruccio è che per esempio un ristorante come quello di Massimiliano Poggi non abbia la stella, anche se la sala adesso è completa. Forse mancava qualcosa. Secondo me è il momento della provincia, per la prossimità al prodotto, la continuità del lavoro e l’estraneità a certi meccanismi di moda, mentre le città subiscono flussi strani: da Alessandra Buriani per esempio si sta benissimo. Ma anche da Borsarini, Bertozzi, Nuova Roma, Mirasole…”
Letizia Zinno, signora Metafora di Napoli
“Nei tre stelle italiani non esiste alcun problema, soprattutto se si tratta di ristoranti storici. Il vulnus è rappresentato dai locali che hanno una stella. Ci sono cuochi che ragionano in termini sbagliati: fa comodo essere presenti nella guida, perché porta gente, ma mantenere le due stelle costerebbe troppo. Nello stesso modo ci sono bistellati che temono o agognano la promozione, e perciò cucinano diversamente. Quindi a mio giudizio si dovrebbero premiare esclusivamente i giovani ambiziosi.
Per quanto riguarda il mio gusto personale, invece, il discorso stelle è superato perché è stata superata la cucina che esprimono gli chef stellati. Andare da loro è un’esperienza da fare, che non attiene sempre in senso stretto al cibo che si porta in tavola. È un po’ come nel mondo dell’arte, si lavora sui concetti. Come nell’estetica si passa dall’astratto al figurativo, anche nel mondo culinario è possibile che ci sia un ritorno non solo alla qualità, perché questa non si dovrebbe discutere, ma alla semplicità percepibile da una platea più allargata. Ecco: oggi per me essere soddisfatta in questo ambito significa mangiar bene una cucina del territorio, magari non universale (come quella imposta da italiani e francesi), ma genuina e semplice, senza arzigogoli. Questo è un parere personale, perché nel tempo non mi son fatta mancare lo spettacolo, nemmeno in Perù.
Morale: io ho i miei riferimenti nella zona in cui vivo, per esempio Josè Restaurant. Quando viaggiamo per lavoro in posti strani, chiedo al concierge o utilizzo la guida per cercare stellati e non è detto che la scelta sia sempre felice. Trovo che manchi un criterio universale nelle diverse parti del mondo”.