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Josè Restaurant: il Miglio d’Oro di Domenico Iavarone

di:
Alessandra Meldolesi
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Domenico Iavarone copertina 970

Un altro indirizzo gourmet in Campania, un’altra promessa di fronte alla Penisola Sorrentina: è il ristorante Josè di Domenico Iavarone, allievo di Gennaro Esposito e Oliver Glowig, già stellato al ristorante Maxi. 

Il Ristorante

Josè Restaurant


Da una parte Capri, dall’altra il Vesuvio, sulla direttrice spaccabellezza del Miglio d’Oro, dove a partire dal 1.700, gli aristocratici napoletani edificarono luminose dimore neoclassiche. E’ in questo scenario, per la precisione a Villa Guerra, Torre del Greco, che la famiglia Confuorto sta tentando un esperimento nuovo. A metà strada fra il capoluogo e gli epicentri del turismo, la sfida è quella di destagionalizzare il miracolo campano per proporre tutto l’anno la cucina mediterranea di una giovane scuola, che già scalpita pochi chilometri più in là. Non ci aveva mai pensato nessuno fino ad ora.

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La struttura è bellissima: prossima alla Villa delle Ginestre, che ospitò Leopardi, è circondata da 3 ettari di verde, adibiti in gran parte ad agrumeto come è consuetudine sul Miglio. E’ in allestimento anche l’orto del ristorante, che sarà a pieno regime dal mese di maggio. Il terreno, cupo, è quello calato dal Vesuvio, “isso” come lo interpellano reverenti i torresi, con tutta la mineralità che ne consegue. L’architettura invece è bianchissima: vi si accede dalla scala sulla strada, al termine della quale si aprono le salette con i pavimenti colorati che sanno di riggiole napoletane, le stesse messe in tavola. Sopra, le salette appena leziose per gli eventi con terrazza panoramica sul mare; sotto, la cantina dove un tempo si ammostava il vino e che verrà riconvertita a spazio per degustazioni e taglieri.

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La Storia

Ci hanno messo mano meno possibile, i titolari Giuseppe e José Maria Guidone, limitandosi a scrostare la patina kitsch depositata sugli ambienti da pochi anni di cerimonie ed eventi. Soprattutto hanno scelto lui: Domenico Iavarone, chef trentaquattrenne che nel giro di pochi chilometri è nato anche professionalmente. “Mio padre aveva una macelleria a Casavatore, ma io a un certo punto ho deciso di cambiare strada e mi sono iscritto all’Alberghiero a Napoli. Dopo qualche stagione in Spagna, nel 2001 sono arrivato al Capri Palace di Oliver Glowig, che scorrendo il mio curriculum ha storto il naso: ‘è troppo scadente perché tu faccia parte della mia brigata’. Invece sono partito commis e sono finito sous-chef, il suo figlioccio spirituale. Mi ha trasmesso le tecniche, il rigore, l’organizzazione; soprattutto sono rimasto affascinato da come uno straniero potesse esaltare il Mediterraneo. Ma altri quattro anni li ho trascorsi con Gennaro Esposito, maestro di territorialità ed emozione, perché io lo vedo così: è un sentimentale”.

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Il primo ruolo di chef, subito premiato dalla Rossa, è al Maxi di Vico Equense, da cui Iavarone pochi mesi fa ha sradicato qualche piatto e buona parte della brigata, su tutti il pasticciere Andrea Marano, in direzione Torre del Greco. Il maître e direttore di sala è Enrico Moschella, passato per la Locanda Locatelli e il Capri Palace; il sommelier Diego Laguzzi, che ha optato per una carta snella di 70-100 etichette, per tenere il passo con la stagionalità della cucina, magari da approfondire in verticale. Vini al 50% campani su una cucina di prossimità, con le piccole cantine (per un volume massimo di 3500 bottiglie per referenza), i biologici e i biodinamici in evidenza quali stenografi di un terroir, spesso prefilosserico.

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Anche la cucina è a piede franco: tanti protagonisti del rinascimento campano sono nati proprio a Torre (Michele De Leo, Salvatore Bianco, Vincenzo Guarino, Carmine Di Donna), forse per la dovizia di prodotti e tradizioni artigianali, anche se la città non ha mai avuto un ristorante gourmet. José ci prova facendo leva sulla vanga di Gerardo, che cura l’orto da cui a breve verranno colti anche i pomodori del piennolo, asciutti e minerali, da appendere in un locale dedicato. Il pesce è quello scelto ogni mattina presso la pescheria storica del porto cittadino, con la sua flottiglia di barche; le verdure arrivano da contadini locali; i latticini dal selezionatore di piccole aziende casearie Luigi Muroli, vaccini secondo tradizione; la pasta è di Gragnano (Pastificio Dei Campi o Gerardo Di Nola); l’extravergine quello di una selezione campana; le conserve di pomodoro infine sono etichettate Sapori di Corbara o Miracolo di San Gennaro. Mentre nel capitolo carni corrono i conigli di fossa, i suini dell’allevamento di famiglia e gli agnelli di Sant’Anastasia.

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I Piatti

I menu degustazione sono due, da 5 e 7 portate rispettivamente a 60 e 90 euro. Prendono le mosse da antipasti che più napoletani non si può: la bruschettina al corbarino, la montanarina pomodoro e basilico fragrante dell’orto, dalla testura friabile e ricca grazie allo strutto, la spuma di ricotta con pomodorini secchi e polvere di olive, la cialda con ricotta e acciuga di Cetara, dall’opulenza similare. Per benvenuto la crema di spinaci con polpo, sedano, patate e tarallo di Agerola; al posto del burro una cagliata acidula, sempre da pezzata rossa dei monti Lattari, per aprire lo stomaco.

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Il crudo coniuga prodotto, estetica e creatività: lo compongono il gambero rosso ripieno di burrata e caviale, l’ostrica marinata in acqua tonica sul modello gin tonic, lo scampo marinato in succo di mela verde, la ricciola all’arancia candita, la seppia a tagliatella con il nero, erbe aromatiche e spontanee, pesto di basilico, salse di limoni canditi e San Marzano.

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Del Maxi è sopravvissuto qualche signature dish, per esempio l’uovo in purgatorio con gamberi rossi crudi di Mazara del Vallo. Un piatto povero della memoria, preparato dalle massaie il sabato dopo il lungo giro di compere per il pranzo domenicale, da accompagnare con pane abbondante. Quindi l’uovo cotto a basa temperatura, i gamberi per il contrasto aristocratico, la zuppa di pesce (scorfano, tracina eccetera) quale trait-d’union. In abbinamento la Falanghina dei Campi Flegrei 2015 Agnanum, sulfurea per il terroir ma morbida grazie alla surmaturazione.

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“Il risotto è una passione che ho contratto da Gennaro e lo eseguo ancora come lui, con la tostatura nell’olio, pochissima cipolla, brodi molto leggeri, che non coprano il gusto dei chicchi, la mantecatura di Parmigiano e olio in cottura, più efficace e meno invasiva”. In questo caso si tratta di un brodo di steli di cipollotti, più una crema di cipollotto bruciato e gli steli crudi per variare le consistenze, insieme alle mandorle tostate; mentre le acciughe in superficie sono marinate nella colatura, per un esito intermedio fra fresco e sotto sale, bilanciato dall’acidità dello yogurt di bufala: Mediterraneo in tutta la sua estensione. “L’ispirazione mi è venuta dalle sarde in saor, un pesce che non amo ma che Oliver mi ha esortato a mangiare”.

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I tortelli di pollo speziato con anice stellato, cannella e vaniglia sono conditi con carciofi in crema per la stagionalità, riduzione di Cynar e fondo di pollo, per riprendere la speziatura, sottolineare l’amaro e bilanciarlo col residuo zuccherino. Più il doppio crunch della pelle di pollo e delle lamelle fritte. Il partner nel bicchiere si chiama Zagreo 2015 i Cacciagalli: un orange che tiene dietro ottimamente all’amaro vegetale e all’aromaticità del piatto.

Ma non può mancare la pasta secca, vedi le candele alla genovese con cipolla in doppia consistenza, cremosa e fritta, farcite in parte di ricotta fredda in contrasto.

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Ottima la triglia stile fish and chips, dove il filetto, fragilissimo, è impanato nelle patatine. “Un piatto nato per far mangiare il pesce a mio figlio Rosario. Le lamelle vengono fritte in olio di oliva a 160 °C, poi fatte asciugare per un giorno a 100 °C. La triglia squamata viene impanata come una cotoletta e passata in forno”. Completano il piatto, irresistibilmente pop, anche nella presentazione, la maionese allo zafferano e la lattuga romana per l’amaro e l’acquosità, i ravanelli all’aceto di lamponi per ripulire, la schiuma di pepe bianco e il fondo di pollo come mamma Francia comanda. Pop-classico.

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Ma c’è anche qualche portata di carne, per esempio la pancia di maiale cotta per 24 ore a 100 °C con pepe in grani, alloro e rosmarino, scottata sulla cotenna e servita con purè di patate al macis, fave e cipolle all’aceto di lamponi.

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Fra i dolci, rassicuranti, la ganache di cioccolato fondente Valrhona con terra di cioccolato, sorbetto di lamponi, lamponi disidratati e profumo di ibisco. La piccola pasticceria (sfogliatella riccia, graffa alla cannella, torta caprese al limone) guarda al territorio. Il consiglio è di osare di più, specialmente sui giacimenti del meroir: crescerà.

Indirizzo

Josè Restaurant - Tenuta Villa Guerra

Via Nazionale 414  80059 Torre del Greco (NA)

Tel.+39 081 883 62 98

Mail: welcome@villaguerra.it

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