A Canale Davide Palluda sfodera una maturità rutilante: la sua è una grande cucina neoclassica, incentrata sulla materia roerina
La Storia
La Storia di Davide Palluda
All'Enoteca di Canale, là dove c’era l’orto, ora c’è una vigna. E al posto dell’erba, hotel e ristoranti alla moda. È cambiato non poco il paesaggio del Roero, tutt’intorno, negli ultimi vent’anni. Mentre al suo interno cresceva il talento di , cuoco dalla sensibilità e dalle abilità formidabili, che sa interpretare questa terra come nessuno, senza complessi di inferiorità verso le vicine Langhe.
Sarà perché c’è nato, proprio a Canale nel 1971, e l’alberghiero l’ha frequentato a Barolo. “Erano tempi non sospetti, quando il miracolo era di là da venire. I miei facevano tutt’altro, ma ad attirarmi era la manipolazione dell’ingrediente. La stessa molla che mi muove ancora”. Scatta subito da Felicin a Monforte, stellato dall’impronta profondamente piemontese, già tarato sul target straniero. Poi, fondamentale, il lungo rimpallo ai Balzi Rossi, allora bistellati, con Pina Beglia, geniale mère de Vintimille. “Vi ho trascorso due anni e mezzo. Avevo appena finito il militare, ma lei è stata molto peggio: uno schnauzer, per quanto biondo. Aveva questa mano, un talento naturale fra i più impressionanti nei quali mi sia mai imbattuto. E nei suoi piatti non c’era niente di scolastico, perché è sempre stata una caparbia presuntuosa. Le venivano a forza di provarli e riprovarli, e il ciupin non mi è mai riuscito buono come il suo. Era avanti senza saperlo, inconsciamente, con la sua cucina di materia che strizzava l’occhio alla Francia. Ma tutta la Liguria mi è rimasta nel cuore: sono innamorato soprattutto dell’entroterra. È stato il luogo in cui crescendo, ho assorbito il rigore della mia prima grande maison”.
È la lettura di Grand Gourmet a portarlo oltre altri confini, prima all’Hostellerie du Cerf, due stelle alsaziano, poi da Peter Müller in Germania. Scuole di cucina classica, che temperano il calore mediterraneo con il termostato della riflessività e della tecnica. Il mix è già ben riuscito nel 1995, quando dopo un passaggio al Bersagliere di Goito, a soli 24 anni, approda all’Enoteca del Roero con la sorella Ivana in sala, coinvolta quando lavorava nel negozio di abbigliamento di famiglia e formatasi sul campo. Lo certificano dopo un lustro il riconoscimento Espresso al giovane dell’anno e la stella Michelin. Da 4 anni c’è anche la Piola sotto il gourmet, con una dozzina di piatti tradizionali e non solo in continuo ricambio, la pasta fresca e il vegetale in evidenza per uno scontrino medio al di sotto dei 30 euro.
“In questi anni il mio lavoro è stato di epurazione, di pari passo con la maturità incipiente, con una sempre maggiore focalizzazione sulla materia”, tira le somme Palluda. “Ho cominciato a guardare il mio territorio senza retorica, nella consapevolezza che non è migliore degli altri, ma può rendere la cucina unica e originale. Mentre l’ingrediente lontano è bene accetto in contrasto, senza perdere il rigore stilistico e la concentrazione. Né ho mai smesso di assaggiare prodotti: un allenamento sensoriale che ha arricchito il mio bagaglio. Perché non sono un istintivo, non ho il guizzo immediato. Noi piemontesi riflettiamo sempre a lungo: è la prudenza a guidarci, nel piatto come nelle scelte imprenditoriali”.
La materia, allora: il pesce è quello top (e ligure) di Verrini; le carni arrivano da tre fornitori, fra cui Mario Bollano a Grinzane; la frutta e la verdura dal circondario. “Il dialogo diretto con i fornitori è fondamentale, ma facendo tanti coperti, in tutto un centinaio al giorno, la costanza è una conditio sine qua non. Stiamo raccogliendo anche i frutti del lavoro in cantina, dove abbiamo accumulato vecchie annate del Roero; poi ci sono tanto Piemonte e un po’ di Francia. Sono uno chef che ama il vino: il dialogo dei piatti col bicchiere è strettissimo”. Le referenze, stappate dalla sommelier Alessia Bosco, sono circa 500; tre i menu, di 8 corse a 80 euro, 10 a 95, più lo stagionale dedicato al tartufo bianco come alle verdure, secondo il periodo. Prezzi e volumi che delineano un successo anche imprenditoriale. “Ma un ristorante come il mio non può avere in carta più di 25-30 piatti, per ragioni di freschezza. Amo la sensazione della brace, per quanto possa standardizzare, e le lunghe cotture ma non sottovuoto, nel forno statico. Qualcosa di ancestrale”.
La cucina che ne risulta è stata definita da Andrea Grignaffini “neoclassica”, in continuità con un passato che ha il vizio della contemporaneità per tecniche prevalenti, moderazione gustativa, senza picchi troppo aguzzi, e centralità della materia. Danza nelle catene, per dirla con Friedrich Nietzsche, coniugando regole e personalità, memoria e innovazione, aspettative e sorpresa, senza mai rinnegare la prudenza. Mentre spicca una manualità purissima, fra le più eleganti della cucina italiana, ancor più carezzevole laddove la ricetta sfodera una semplicità disarmante nel gioco di pochi ingredienti, che invece fanno il miracolo.
I Piatti
Si comincia con gli appetizer: il panino al vapore con salame cotto, le acciughe fritte per un ricordo di Liguria, il cono di panna acida e trota salmonata, la polpetta di bollito impanata non fritta, il raviolo alla piastra con salsiccia di Bra e cavolo nero, la prugna in carpione alla maniera di una cipollina, per resettare, stile umeboshi ma all’aceto e non fermentata al sale. Il benvenuto è il cavolfiore cotto in riduzione con colatura di alici, leggermente affumicato e condito con il rafano. “Perché volevo un inizio leggero, vegetale ma non banale. Siamo soliti mangiare il cavolfiore con le acciughe e spesso sui lati il fondo brucia un po’, più il rafano sul filo dello zolfo”.
Ma il primo antipasto è la torta di nocciole poco zuccherata, cotta al microonde per l’effetto montato, farcita a mo’ di sandwich deluxe con tartare di spalla cruda (“più saporita e consistente della solita coscia”), ovoli, tartufo bianco e sul fondo, per lo stacco, una carnosa acciuga salata, che scongiura il rischio di stucchevolezza e sollecita la masticazione per la persistenza. Sul confine tra dolce e salato, un’epitome di vecchie e nuove Langhe, dove la nocciola funge anche da base grassa per gli aromi liposolubili del tubero, spesso nocciolato al naso.
Sono un piccolo miracolo le lumache, helix muller piccole e tenere, di Scalea anziché di Cherasco. “Il piatto è nato assaggiando il prodotto portato da ragazzi calabresi, di cui ho cercato di fissare e allungare il gusto. È arrivato così il burro chiarificato, un condimento forse demodé, che sto riscoprendo. Mi piace perché può essere aromatizzato in preparazione e acquisisce diverse sfumature secondo quanto lo scaldi, perdendo la parte lattica, per poi virare verso una moderata biscottatura. Lubrifica le lumache, che sono magrissime; più qualche ingrediente di supporto: l’insalata alle mele verdi e la clorofilla di prezzemolo”.
I bottoni in stile amatriciana sono una nostalgia dell’estate. “Mi piace portare una stagione dentro l’altra, principio della cucina kaiseki, ma anche della dispensa italiana. Così quando siamo sommersi dai pomodori prepariamo una conserva di tre varietà in forno. Con un po’ di zucchero muscovado, emulsionata all’olio di vinaccioli, fornisce la farcia dei bottoni, conditi con guanciale sottile crudo, pecorino e olio alla vaniglia”, in abbinamento sia sul maiale (modello cotechino) sia sull’ortaggio, quale esaltatore di soavità.
Ogni anno poi c’è il menu dedicato alla selvaggina, retaggio della permanenza in Germania. L’approccio anche qui è classico, con un ampio ricorso all’abbattimento selettivo, fondi d’ordinanza (nel forno se ne riducono una decina, oltre ai tre brodi sul fornello) e frollature leggere, non sottovuoto, per un problema di acidità e perdita di succhi, ma nello straccio dentro una carta particolare. “Dipendono sempre dalla ricetta, perché la caccia può essere una carne normalissima, appena più intensa dell’agnello, o virare verso il selvatico con vino e spezie. Ma normalmente è già tenera. Il capriolo, il mio preferito, c’è tutto l’anno. Servo il filetto al sangue con il suo fondo, una spolverata di cacao fermentato Valrhona acidissimo, fettine di pera leggermente marinata e chicchi d’uva appena asciugati in forno per la classica guarnizione di frutta, una salsa di frattaglie emulsionata con pasta di arachidi come stabilizzante e per spingere la sensazione di foie gras con grassezza e tostatura”.
Dopo il sorbetto di uva fragola, effetto refresh, il dessert è complesso. Si tratta di tre ravioli di guscio neutro di purè, amido di patate e glucosio, ripieni di gusti primari: la genziana per l’amaro a fine pasto, la nocciola per la grassezza “ruffiana” e il frutto della passione per l’acidità, più un bicchierino di spuma di caffè tiepida e un sorbetto di cioccolato al sale ottenuto in Carpigiani.
Indirizzo
Ristorante all’EnotecaVia Roma n 57 – 12043 Canale (CN)
Tel. +39 0173.95857
Mail info@davidepalluda.it
Il sito web