Lo chef abruzzese, oggi alla guida di Torno Subito Singapore, racconta il mestiere di cucinare l’Italia fuori dall’Italia: tra memoria, identità e disciplina, nel cuore di un progetto internazionale firmato Francescana Family.
Il percorso di Alessio Pirozzi – dalle radici abruzzesi alle cucine stellate tra Europa e Asia – si intreccia oggi con una delle realtà più riconoscibili e influenti della ristorazione contemporanea: la Francescana Family. In qualità di Executive Chef di Torno Subito Singapore, Pirozzi porta avanti una visione gastronomica che si muove costantemente tra rispetto per l’identità italiana e libertà creativa. Ecco perché, nel mettere a fuoco il suo stile di cucina, abbiamo scelto di andare oltre l’attualità di un menu o di un’apertura, per toccare temi più ampi: dislocazione culturale, nostalgia, etica del gusto, modernità ed un continuo equilibrio tra espressività personale e appartenenza a una visione collettiva – quella che, sotto la guida di Massimo Bottura, è diventata un ecosistema internazionale capace di parlare molte lingue restando riconoscibile. L’intento? Tracciare il ritratto autentico di un cuoco che si muove con rigore, memoria e progetto.



Lei ha lavorato in città diversissime: Pechino, Dubai, Singapore. Qual è stato il suo momento di maggior disorientamento culturale in cucina?
Il momento più estremo, senza dubbio, è stato a Pechino. Portare la cucina italiana in quel contesto significava molto più che preparare piatti tradizionali: era un vero e proprio atto di mediazione culturale. Mi sono trovato a dover spiegare che la pasta “al dente” non è semplicemente poco cotta, ma rappresenta un tratto distintivo della nostra identità gastronomica, un equilibrio sottile tra consistenza e sapore. All'inizio ho percepito una certa diffidenza: il concetto stesso di gusto, di armonia tra gli ingredienti, persino la temperatura di servizio, venivano interpretati in modo diverso. A tutto questo si aggiungeva una barriera linguistica importante. Molte persone non parlavano inglese, e comunicare con precisione la mia visione diventava ogni giorno più complesso. Mi sono ritrovato a fare affidamento su gesti, esempi pratici, assaggi. Col tempo ho capito che insegnare la cucina italiana all’estero non significa solo trasmettere tecniche, ma raccontare una cultura, dare un contesto, farla vivere attraverso le emozioni. È stata un’esperienza intensa e faticosa, ma profondamente formativa: ho capito quanto il cibo possa diventare un vero linguaggio universale.

La nostalgia è un ingrediente o una trappola?
La nostalgia è, senza dubbio, uno degli ingredienti fondamentali della cucina contemporanea. È ciò che ci lega alle nostre radici, che dà anima ai piatti. Penso, per esempio, alla nostra porchetta: da ragazzo, crescendo in Abruzzo, assaggiai una porchetta che mi colpì profondamente. Dopo quindici anni ne conservavo ancora il ricordo vivido. Così ho deciso di reinterpretarla, con l’intento non solo di omaggiarla, ma di migliorarla. L’ho resa croccante fuori, morbida e succulenta all’interno, scegliendo il miglior maialino da latte disponibile sul mercato. E per darle una nota contemporanea, ad ogni stagione le affianco un elemento che ne rinnova l’identità: in estate, ad esempio, la accompagno con una composta di pesche saturnine, che aggiunge una dolcezza naturale ed elegante. La nostalgia, quindi, non è una trappola, ma un motore creativo. Il segreto sta nel non limitarsi a replicare i ricordi, ma nel trasformarli in qualcosa di vivo, personale e attuale.

Ha operato in contesti dove l’identità italiana si traduce in brand, estetica e contenuto. Dove ha avvertito la maggiore frizione tra ciò che “ci si aspetta” e ciò che lei è davvero?
La cucina italiana all’estero oggi è più forte che mai: la troviamo ovunque, dal casual dining alla pizza, fino al fine dining. Ma proprio per questo motivo, il rischio di cadere negli stereotipi è sempre dietro l’angolo. In contesti internazionali, dove l’identità italiana spesso si traduce in un brand estetico, fatto di colori, cliché e aspettative, la sfida più grande è restare fedeli a sé stessi. Come dice Massimo Bottura, siamo “ambasciatori della cucina italiana”, e questo comporta una grande responsabilità: essere coerenti, fare attenzione a ogni scelta, dagli ingredienti alla narrazione che accompagna il piatto. Il mio compito è raccontare un’Italia autentica, stagionale, viva, fatta di territori, ricordi e materie prime eccellenti. Senza accostarmi ad etichette stereotipate e senza mai dimenticare chi siamo e da dove veniamo.


Singapore è una città iper-lucida, precisa, regolata. In un luogo così sorvegliato, come si mantiene vivo un cuore emotivo, anche in cucina?
Capisco perfettamente cosa intendi. Singapore è una città estremamente regolata, efficiente, precisa. Ma il mio punto di riferimento rimane sempre Modena, l’Italia, le mie radici. È da lì che traggo ispirazione emotiva, quella componente umana e imperfetta che cerco di tenere viva ogni giorno, anche in cucina. Cerco costantemente di restare aggiornato su cosa succede in Italia, di cogliere ogni occasione per tornarci, visitare mercati, scoprire nuovi prodotti, assaggiare, parlare con i produttori. Quando trovo ingredienti interessanti che qui non esistono, faccio il possibile per farli arrivare tramite i miei fornitori: è il mio modo per mantenere un legame vivo e pulsante con le mie origini. Anche in un contesto iper-controllato come Singapore, credo che il cuore della cucina debba sempre battere con un po’ di ritmo italiano.

Cosa pensa dell’ossessione per la filiera corta quando si lavora in contesti in cui la cucina italiana è, per forza di cose, diasporica?
Credo che, quando si lavora all’estero, sia inevitabile affrontare il tema della filiera in modo diverso rispetto a chi lavora in Italia. Il mio compito è cercare di portare qui, nonostante la distanza, gli ingredienti più rappresentativi della nostra cucina, quelli che definiscono la nostra identità.Allo stesso tempo, credo sia fondamentale anche valorizzare ciò che il territorio offre. Per esempio, tutte le verdure a foglia verde presenti nel menu sono locali e sostenibili. C’è un equilibrio da trovare tra autenticità e adattamento: non bisogna replicare l’Italia in modo forzato, ma farla dialogare con il contesto in cui si cucina.

Cos’è per lei oggi la modernità in cucina, se si esclude l’estetica? E in questo senso, quanto può essere moderno un ragù?
Per me, oggi, la modernità in cucina non è l’estetica, ma la ricerca del gusto, la storia che un piatto racconta, e soprattutto la personalità di chi lo interpreta. È il modo in cui scegliamo di rileggere una ricetta, con rispetto ma anche con visione, facendo emergere ciò in cui crediamo come cuochi. Ne abbiamo un esempio perfetto con il ragù di Massimo: è uno dei piatti best seller del ristorante. Vengono utilizzati tagli meno nobili, ma trattati con una tale cura e sensibilità da dare vita a un’espressione gustativa intensa, profonda, indimenticabile. È questo che rende un piatto davvero moderno: la capacità di emozionare, anche partendo da ingredienti semplici.

Il menù degustazione: forma di narrazione necessaria o compromesso d’autore?
Il menù degustazione è una forma di narrazione necessaria, soprattutto quando si ha qualcosa da raccontare. È uno strumento che permette al cuoco di esprimere una visione, di accompagnare l’ospite in un percorso costruito con coerenza e identità. Nel nostro caso, chi viene al ristorante può scegliere liberamente alla carta, ma può anche lasciarsi guidare dal Riviera Tour, un itinerario che attraversa idealmente la Riviera italiana da nord a sud. È una selezione di piatti autentici, non presenti nel menù alla carta, pensati proprio per offrire un’esperienza esclusiva, personale. Non è un compromesso, ma un racconto: un modo per far vivere all’ospite un’Italia vera, magari diversa da quella che si aspetta.
Cos’è per lei il lusso in un piatto, oggi che la parola è logora?
Ingrediente, ingrediente, ingrediente con amore e tecnica.

Cosa trova più difficile da scoprire oggi: un ingrediente autentico o un’idea autentica?
Senza dubbio un’idea autentica. Gli ingredienti autentici, seppur rari si possono ancora trovare: ci sono produttori straordinari, territori che custodiscono tradizioni e materie prime incredibili. Ma un’idea autentica è più difficile da scoprire. Viviamo in un’epoca in cui è facile lasciarsi influenzare e spesso si rischia di ripetere ciò che è già stato fatto. Trovare un’idea che sia davvero personale, che non insegua le mode ma nasca da un pensiero profondo, da un’intuizione sincera, è una sfida enorme. Ma è quello che rende distintiva una cucina viva.

Massimo Bottura: che cosa le ha insegnato che non ha nulla a che vedere con la cucina?
Da Massimo Bottura ho imparato il coraggio e il senso di responsabilità, due cose che vanno ben oltre la cucina. Il coraggio di osare, di rompere gli schemi senza perdere il legame con le radici. E la responsabilità che ogni scelta comporta: verso la cultura che rappresenti, verso le persone che lavorano con te, verso chi si siede a tavola e si affida alla tua visione. Mi ha insegnato che essere chef oggi significa molto più che saper cucinare: significa avere una voce, usarla con consapevolezza e contribuire, nel proprio piccolo, a cambiare le cose.

Teme di più, oggi, di diventare prevedibile o inintelligibile?
In realtà non temo nessuna delle due in modo ossessivo, ma se dovessi scegliere, direi che temo di più di diventare inintelligibile. Essere compresi, anche con il tempo e a posteriori, è fondamentale se si vuole lasciare un segno, se si vuole davvero comunicare qualcosa. La prevedibilità può avere dei rischi, certo, ma a volte è anche sinonimo di coerenza. L’incomprensione, invece, rischia di trasformare un messaggio in un’occasione mancata.

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