“Perché la carta dei vini è spesso del tutto assente nelle recensioni dei ristoranti?” La riflessione di Eliza Dumais.
Sedersi a tavola oggi significa più di nutrirsi: è entrare in un piccolo teatro dell’impossibile, dove il gusto si intreccia con la luce calda di una sala, il fruscio dei tovaglioli, il ritmo del personale e il silenzioso linguaggio dei bicchieri di cristallo. Il cibo occupa naturalmente la scena, ma chi ha già provato l’arte di un buon programma di vini sa che lì, accanto al piatto, si gioca un’altra magia: quella che completa ogni boccone, che rivela note nascoste, che solleva l’esperienza da ordinaria a memorabile.

Eppure, sorprendentemente, questa magia sembra spesso ignorata dai critici gastronomici. Lo sottolinea la nota penna di Decanter Eliza Dumais, secondo cui nei grandi giornali e nelle recensioni più influenti l’arte della selezione e della gestione dei vini appare come un dettaglio trascurabile, un accessorio rispetto alla protagonista assoluta, la cucina. L’autrice cita il caso di Smithereens recensito dal New York Times: una selezione di vini unica, incentrata su Riesling, ridotta a una riga. O quello di Le Veau D’Or, dove persino il nome del sommelier – leggenda locale per il gusto e la competenza – è stato trascritto erroneamente. La sequenza si ripete, talvolta, tra ordinazioni accennate senza approfondimenti, tra elogi che bypassano sommeliers e beverage directors, come se la loro abilità non facesse parte della narrazione di un ristorante.

Ma Decanter riporta pure il giudizio di Alex Delany, che sintetizza perfettamente il concetto: «Recensire solo alcune parti di un ristorante è un torto verso il lettore e il commensale. Sarebbe come recensire tre quarti di un film». Eppure, il vino non è una questione minore: non nasce in casa come il pane o la pasta, tuttavia esige la stessa dedizione, una conoscenza minuziosa dei territori, delle annate, dei vitigni e della loro storia, un’intuizione acuta su cosa conservare in cantina, cosa proporre al bicchiere e come armonizzarlo con ogni piatto, in equilibrio tra valore e piacere. Una lista vini ben curata non è artigianato, è poesia organizzata. Yana Volfson, artefice di programmi premiati tra le cucine di Enrique Olvera a New York e Los Angeles, la definisce “arma segreta”: «Entriamo, posiamo un bicchiere davanti a te e versiamo qualcosa che ti fa sorridere. All’improvviso il palato si arricchisce di sfumature, si prepara ad un morso appena gustato o a quello successivo», racconta a Decanter. Non sorprende che, quando un programma di bevande funziona così bene, sembri invisibile, quasi a voler sostenere il cibo senza mai rubargli la scena: è un ruolo di sottofondo, silenzioso e strategico, eppure fondamentale.

Il mondo del vino è implacabilmente elitario. I nomi dei vitigni, le regioni, le tecniche di vinificazione e le annate creano un lessico complesso, difficile da padroneggiare, spesso impenetrabile per chi non ha anni di esperienza sul campo. E chi, tra i critici, può davvero vantare questa competenza? Matt Ross, esperto di selezioni vinicole, lo mette in chiaro: «Occorre molta esperienza per leggere una lista vini e identificare ciò che è artistico o intenzionale, pochi critici possiedono il livello necessario per azzardare un’opinione forte». Il tema tocca anche l’esperienza comune degli ospiti. Non tutti desiderano imparare i segreti di un sommelier, ma molti apprezzano sapere se la selezione di vini è interessante, se vale la pena abbinare un bicchiere a un piatto, o se chi versa ha una sensibilità autentica. E quando la lista è pensata, studiata, calibrata su ogni proposta culinaria, l’esperienza ne guadagna un livello di profondità che la rende indimenticabile. È il dettaglio che completa l’arte del ristorante, il sottofondo armonico che accompagna la sinfonia principale dei piatti. I critici, dotati di influenza e pubblico vasto, detengono la capacità di guidare le scelte dei commensali, ma la loro attenzione verso il vino rimane spesso marginale, quasi residuale. Eppure, i beverage director meritano riconoscimento: sono custodi di sfumature, interpreti di territori, creatori di combinazioni inedite, strumenti indispensabili per raccontare appieno la filosofia di un ristorante. Quando l’attenzione viene concessa, i risultati possono trasformare una recensione da buona a illuminante, evidenziando l’integrazione tra cibo e bevande che molti ospiti percepiscono senza sapere di farlo.

In questo contesto, la critica gastronomica ha ancora molta strada da fare. Non per sminuire chef o piatti, ma per riconoscere che l’esperienza di un ristorante è un ecosistema complesso, in cui la voce del vino non è secondaria ma complementare, essenziale per percepire ogni strato di gusto, ogni eco di aroma, ogni sfumatura del talento dei cuochi. Non si tratta di privilegiare bottiglie su piatti, ma di rendere giustizia a chi, dietro le quinte, lavora per trasformare un pasto in un’esperienza totale. È il momento di cantare anche il vino, di valorizzare chi lo sceglie, lo custodisce e lo propone con intuizione e grazia, di restituire al lettore una recensione completa, capace di restituire la ricchezza dell’esperienza che ognuno di noi merita quando si siede a tavola. Perché un buon pasto non è solo il piatto, è l’insieme dei sensi che vengono guidati, solleticati e coccolati da mani esperte, e tra queste, le mani del sommelier hanno la stessa dignità e magia di quelle dello chef.