“Dolce” è un aggettivo che, nella vita di tutti i giorni, raramente porta con sé connotazioni negative. Eppure, quando si parla di vino, diventa quasi un insulto. Quante volte abbiamo sentito dire: “Bevo qualsiasi cosa, purché non sia dolce” oppure “Lo voglio secco come il deserto”? Un rifiuto tanto netto quanto curioso, che sembra legato più a un pregiudizio culturale che a un reale difetto organolettico.
Colpa di brutte esperienze?
Molti appassionati ricordano con fastidio bottiglie dozzinali da supermercato, piene di zuccheri aggiunti per mascherare difetti, oppure spumanti dolciastri serviti a troppe cerimonie. Esperienze che hanno contribuito a diffondere l’idea che “dolce” sia sinonimo di scarso valore. Eppure, come spesso accade, da un singolo ricordo negativo si è arrivati a condannare l’intera categoria dei vini dolci e semi-dolci, ignorando la loro complessità e potenzialità.
Non è lo zucchero, ma la parola
Come racconta Joseph Signa, sommelier di un wine bar di Brooklyn interpellato -insieme ad altri colleghi- da Decanter qui, il problema non è quasi mai il gusto. “Abbiamo un rosé frizzante con un leggerissimo residuo zuccherino: se lo presento come fruttato e succoso, i clienti lo adorano. Se lo definissi dolce, storcerebbero il naso.”
Il punto è chiaro: non è la dolcezza intrinseca a infastidire, ma l’etichetta che porta con sé preconcetti e semplificazioni.

Un mondo di abbinamenti inaspettati
La diffidenza verso i vini dolci ci priva di esperienze straordinarie. Oggi, chef e sommelier stanno riportando alla ribalta abbinamenti che fino a poco tempo fa sembravano impensabili. Pensiamo al leggendario Château d’Yquem, servito non solo come vino da dessert, ma accanto a piatti ricchi come ravioli al tartufo e salsa alla panna, tanto apprezzati persino da Beyoncé e Jay-Z. Oppure alla rinata popolarità dell’accoppiata Madeira e bistecca: il profilo nocciolato e caramellato del vino taglia la grassezza della carne grigliata e ne esalta i sapori.
Acidità ed equilibrio: il segreto dei grandi vini dolci
Come sottolinea Ramon Manglano, sommelier di un ristorante francese a Manhattan, “un vino dolce ben fatto non è mai solo zucchero. Dietro c’è sempre acidità e freschezza che lo rendono equilibrato e irresistibile”. Manglano ama proporre vecchi Sauternes, come un Doisy-Daëne del 1997, con piatti complessi a base di pollo, funghi e foie gras. Aromi di zafferano, miele e frutta matura che si intrecciano a sapori intensi: un connubio sorprendente che dimostra quanto il dolce possa esaltare anche piatti salati.

La rivelazione che cambia prospettiva
Molti scoprono la bellezza dei vini dolci solo dopo esperienze “forzate”. È il caso di una vendemmia in Alsazia, dove un giovane enologo ha insistito affinché un’apprendista provasse un Riesling fortificato insieme a un formaggio blu. Il risultato? Un’armonia perfetta tra acidità e grassezza, note di miele e albicocca intrecciate alla complessità del formaggio. Un assaggio che ha cancellato in un attimo anni di pregiudizi.
Rivalutare il termine “dolce”
Alla fine, ciò che limita i vini dolci non è il loro profilo organolettico, ma la parola stessa. “Dolce” come categoria riduce e banalizza bottiglie che invece racchiudono un mondo di aromi e possibilità di abbinamento, dal dessert ai piatti salati più raffinati. Riscoprirli significa ampliare i propri orizzonti e lasciarsi sorprendere. Perché, come dice lo stesso Signa: “Alla fine tutti vogliono bere qualcosa che li renda felici. E lo zucchero, da sempre, rende felici.”
