Si chiama Hypertaste e potrebbe rendere superfluo il sommelier al ristorante. Ma gli addetti ai lavori ostentano ottimismo. “La lingua artificiale può aiutare, ma deve esserci dietro un grande professionista”, osserva Sofia Carta; mentre Matteo Zappile intravvede un possibile impiego solo nella ristorazione di massa.
La notizia
Finora erano soprattutto le professioni intellettuali a dover temere il dilagare dell’intelligenza artificiale: traduttori, copywriter, grafici, giornalisti (ahimè), perfino medici a avvocati. Ma il futuro potrebbe essere poco roseo anche per chi lavora con il proprio apparato sensoriale, come i sommelier. La loro sicurezza viene ora messa a repentaglio da Hypertaste, una “lingua artificiale” recentemente lanciata da IBM, che sarebbe capace di degustare il vino come il più esperto sommelier. È grande quanto una fettina di limone e sarebbe in grado di registrare non solo i gusti, ma anche i più sottili fra gli aromi, fino a riconoscere varietà, origine e annata dei vini. I possibili impieghi spaziano dalla scoperta dei difetti nel corso dei controlli di qualità in cantina alle prove nelle commissioni delle denominazioni, fino ai test condotti dalle autorità per verificare eventuali falsi.
Ci sono sommelier che vedono nel nuovo strumento una formidabile opportunità per alleggerire il proprio gravoso carico di lavoro, utile anche in fase di formazione, soprattutto nelle degustazioni in solitaria, dove può rappresentare un punto di riferimento con qualche barlume di oggettività e contribuire ad ampliare gli orizzonti esperienziali. Niente, tuttavia, potrà mai a loro giudizio sostituire il rapporto umano come parte dell’esperienza al ristorante. Nessun dischetto digitale sarà mai in grado di accogliere, consigliare, entrare in empatia con l’ospite e perfino assecondarlo quando ha torto, così come nessun robot potrà mai sostituire un maître premuroso. Lo stesso professionista, tuttavia, potrebbe giovarsi del supporto per informazione sul probabile punto di zenit qualitativo di una bottiglia o sui suoi sbocchi privilegiati di mercato.
Sofia Carta, sommelier di Forte Village, non ha preclusioni. “Personalmente non ho mai avuto a che fare con questo strumento, non nascondo neppure che ci sia sempre stato un tabù sull’intelligenza artificiale e sulla fattibilità del tutto. Per me non è una novità, visto che mio nipote Antonio è professore di Informatica presso l’Università di Pisa, quindi ne abbiamo spesso parlato insieme. Lui condivide il mio pensiero: la lingua artificiale può aiutare, ma deve esserci dietro un grande professionista, perché se è vero che i profumi esprimono un terroir, ogni cosa alla fine può essere il suo contrario.
È facile che un’uva si mimetizzi, occorre grande conoscenza. Ma è anche vero che noi sommelier a volte dimentichiamo le annate e le loro caratteristiche nelle diverse zone, magari conosciamo perfettamente Bolgheri ma non il Carso, quindi ben venga. Sono convinta che le macchine ci debbano aiutare, non sostituire. Già da anni questa tecnologia era allo studio in Svezia, che è un paese senza tradizioni enologiche, ed è facile pensare che si tratti più di informatica che di cultura o storia del vino. Sarebbe comunque divertente metterci le mani, confrontarsi e interagire: la curiosità stimola sempre la crescita e magari in futuro potrebbe entrare anche a Forte Village. La degustazione, come si sa, è oggettiva e soggettiva: ci sono gli aspetti chimici e poi c’è il naso personale, che compie le sue associazioni a partire da una sfera anche intima. Non essendo chimici, noi sommelier potremmo ricavare informazioni e comunicare meglio”.
Matteo Zappile, head sommelier del Pagliaccio di Roma, la vede diversamente. “Tutto ciò che è artificiale, conta fino a un certo punto. Può funzionare per calcolare algoritmi, ciò che ci piace o meno, ma la degustazione è fatta di emozioni che una macchina non è in grado di provare. Il problema è che queste sono soggettive, dipendono da tempo e luogo. Una bottiglia stappata in una diversa occasione cambia. In questo vedo i limiti della tecnologia. Se io e Sofia degustiamo lo stesso vino, io a Roma, lei in Sardegna, giudizi e descrittori non coincideranno.
A mio giudizio questa tecnologia si potrà affermare solo in esercizi che non intendano investire sulle risorse umane, ma una volta che la macchina avrà scelto il vino, servirà sempre qualcuno che lo venda. Penso ad aziende con centinaia di coperti e carte dei vini molto ampie, digitali, dove il cliente viene lasciato alla mercé della situazione. I ristoranti di massa ne faranno anche un vanto, probabilmente, ostentando il robot che ha scelto il calice fruttato o minerale. Poi c’è il problema dell’evoluzione, nel senso che la lingua digitale dovrebbe prevedere la variabilità secondo temperature, umidità e stoccaggio: fantascienza. Le variabili sono troppe perché il vino è sempre vivo”.