La Storia
Il filosofo Schleiermacher ha svolto una lunga riflessione sull’ermeneutica, ossia la teoria dell’interpretazione relativa a un testo o a un dato fenomeno storico, che a partire da un contesto collettivo e oggettivo scivola in un ambito individualistico e soggettivo. Si tratta, detto in termini semplici, di affrontare una questione o un evento già noto con rinnovate capacità cognitive determinate dal qui e ora che ogni epoca o stato emotivo reca con sé. Per questo la rilettura di testi, quali i classici, può ogni volta arricchirci individualmente con nuove emozioni e può altresì far luce su dettagli della storia stessa in precedenza passati inosservati – il cosiddetto circolo dell’ermeneutica.Non siamo certo qui a voler dare lezioni di filosofia, ma questo piccolo cappello ci permette di dare il “la” alla storia che andiamo a raccontarvi oggi, schivando il pericolo di risultare ripetitivi.
Montevertine è una delle grandi storie novecentesche del vino italiano, anche se Montevertine in sé è noto alle cronache della storia come piccolo agglomerato medioevale, nel comprensorio di Radda in Chianti, acquistato poi nel 1967 da tale Sergio Manetti, imprenditore siderurgico di Poggibonsi, come casa di campagna, un buen retiro estivo. All’epoca si era appena usciti dalla mezzadria, ma i contadini, non più mezzadri, erano in qualche modo rimasti legati ai campi, proprio come Bruno Bini, che da sempre si occupava anche del vigneto. Il vino era all’epoca il Chianti, quello realizzato secondo la ricetta del Barone Ricasoli, ed era normale trovare vigneti accanto alle altre coltivazioni, lo si sa, il vino era il miglior companatico in tavola. Sergio Manetti decide di tenere in vita la vigna, è appassionato di vino, e appoggiandosi al Bini ritiene sia una buona idea avere un po’ di vino per sé e per gli amici, senza alcuna iniziale intenzione di creare un’azienda agricola.
A Poggibonsi c’era un personaggio che proprio in quegli anni avrebbe cambiato le sorti vitivinicole della zona, e che Sergio conosceva, per cui è stato naturale che a lui si sia rivolto per avere consigli sulla propria vigna di un 1,7 ettari. Giulio Gambelli entra così in scena con il suo proverbiale metodo, quello basato sul rispetto dell’uva e dei suoi tempi. Grande osservatore e voce assolutamente fuori dal coro, riconosce la grande qualità e finezza del sangiovese, che a quell’altitudine di 300 metri riesce a esprimere al meglio, e piano piano convince Manetti a puntare sempre più sulle sue caratteristiche. Ecco che dal podere Pergole Torte nel 1971 viene realizzata la prima annata di un vino (che all’epoca non si chiamava ancora così) che voleva iscriversi nell’emisfero del Chianti Classico, pur configurandosi ancora come un divertissement, un nettare da condividere con gli amici, e di cui ne sono uscite circa 2000 bottiglie. E così è stato fino al 1975, un vino artigianale prodotto con pochi mezzi e con pochi ettari e senza ambizioni di vendita, ma che già esprimeva il carattere unico di questa zona. Nel 1972 Manetti acquista il vigneto del Sodaccio, di 1,2 ettari, con le consuete vigne del Chianti Classico, sangiovese, canaiolo, trebbiano e malvasia, ed ecco che quindi la produzione subisce un sensibile incremento. A questo punto si fa cruciale l’intervento di Gambelli, che contravvenendo al disciplinare, decide di eliminare dal blend le due uve bianche, il trebbiano e la malvasia – cui nel 74 sarà dedicata un’etichetta di solo bianco – perché diluivano troppo il sangiovese togliendogli carattere.
Sergio Manetti
Il divertimento comincia a farsi serio nel 1973, anno in cui Sergio Manetti inizia a vendere il vino, persino negli Usa, con ottimi riscontri, cosa che lo incoraggia a investire ulteriormente nel suo Montevertine, fino al punto di decidere di vendere l’azienda siderurgica, per dedicarsi in toto al vino. Si allarga quindi il vigneto, si costruisce una cantina più grande, aumentano le vasche in cemento per la fermentazione, e il numero delle botti grandi per l’affinamento, procedimenti ancora oggi praticati in azienda. Il 1977, oltre a essere un’ottima annata, segna anche la genesi del mitico Pergole Torte, un sangiovese in purezza nato dal desiderio di Sergio di fare un salto di qualità, pur inizialmente affiancandolo al Chianti Classico – ed è stato il primo a credere che il sangiovese non necessitasse di una spalla, anche grazie al supporto di Gambelli. Fino al 1981 ha continuato a produrli entrambi, ma poi le divergenze col Consorzio che non accettava il Pergole Torte, lo portarono alla decisione di separarsi dal consorzio e procedere in maniera indipendente, senza il bollino del Gallo Nero. Ma a quel punto Montevertine e Pergole Torte stavano già volando alto, con grande dignità.
Narra ancora la storia che nell’89 il Pergole Torte non fu prodotto per la scarsa qualità della vendemmia, ma Sergio fece di necessità virtù e produsse comunque un sangiovese in purezza, esponendosi in prima persona già nel nome, L’Ottantanove di Sergio Manetti, tanto che, come ricorda Beppe Pieretti, nella lettera che inviò a Giacomo Tachis in accompagnamento a una bottiglia da tre litri, si scusava con lui per la qualità diversa dal solito. Come per il Pergole Torte, fece ricorso all’amico artista Alberto Manfredi per la decorazione dell’etichetta con i celebri volti di donna. Un episodio ripetutosi nel 1991, a dimostrazione che Montevertine ha sempre dato grandi prove anche in momenti in cui la natura è stata meno benevola.
Foto di Lido Vannucchi
Dal 1992 al 1998 l’immagine iconica del Pergole Torte è stata ininterrottamente firmata dal Manfredi, che è venuto a mancare nel 2001, lo stesso anno di Sergio, un motivo in più per Martino e la famiglia per decidere di continuare a porre le sue opere in ogni annata successiva del Pergole Torte, attingendo al vasto archivio del maestro, a suggello della lunga amicizia col papà.
Oggi chi ancora ci racconta indefessamente questi passaggi storici, raccogliendo il testimone del padre e degli insegnamenti di Gambelli, è Martino Manetti, figlio di Sergio, e figlio di Montevertine, essendo praticamente nato insieme ai primi vini del papà. Fedele continuatore della filosofia paterna, Martino produce straordinari vini con la stessa metodologia, memore degli insegnamenti di Gambelli: “Per molto tempo è stato per me solo l’amico del babbo che lo aiutava a fare il vino. Quando sono arrivato alla maggiore età ho cominciato a chiamarlo scherzosamente “l’uomo Del Monte” perché era solo dopo il suo arrivo in vigna e l’assaggio dell’uva che si poteva vendemmiare. Oggi sono fiero di poter dire che Giulio era diventato un mio amico.” (C. Macchi, “Giulio Gambelli. L’uomo che sapeva ascoltare il vino, ed. Slow Food, 2016, p. 71)
E oggi il metodo è lo stesso: “Sin dagli anni Cinquanta Gambelli aveva sviluppato un suo metodo per capire la maturità delle uve. Andava in vigna e assaggiava chicchi d’uva in varie parti del vigneto: per prima cosa assaggiava la polpa, poi la buccia e infine il vinacciolo; se questo era croccante e i tannini erano amari, allora era il momento per vendemmiare. Lo stesso tipo di analisi lo insegnano oggi in molte scuole enologiche, anche in Francia.” (C. Macchi, “Giulio Gambelli. L’uomo che sapeva ascoltare il vino, ed. Slow Food, 2016, p. 71)
Oggi il caleidoscopio di Montevertine è così composto: Pian del Ciampolo, da uve sangiovese, colorino e canaiolo affinato in botte di rovere di Slavonia per circa 12 mesi; Pergole Torte, da una selezione di sangiovese affinato per circa 12 mesi in botti di rovere di Slavonia e circa 12 mesi in barrique; Montevertine, da uve sangiovese, colorino e canaiolo affinato in botte di rovere di Slavonia per circa 24 mesi; olio extravergine d’oliva, da un blend di correggiolo, moraiolo e leccino con frangitura a macina a freddo; Aqua Vitae Le Pergole Torte, grappa distillata da Gioacchino Nannoni dalle vinacce del Pergole Torte, con invecchiamento di 4 anni in caratelli di rovere.
Foto di Lido Vannucchi
Una bella storia che ancora vive e che non sarebbe completa senza la testimonianza del figlio Martino, che ama raccontare aneddoti di papà Sergio, grande amante del bien vivre e della buona tavola: “Babbo con i ristoranti era molto abitudinario, preferiva sicuramente quelli di vera cucina tradizionale, anche se, specie in occasione di viaggi all’estero, non disdegnava fare nuove esperienze. A Firenze il “suo” ristorante era la Trattoria Sostanza detto “Il Troia”. Era amico stretto del titolare, Mario, e mangiava lì almeno un paio di volte a settimana. Sempre a pranzo, comunque. Mio babbo non amava uscire a cena. I suoi piatti preferiti dal Troia erano i petti di pollo al burro e il tortino di carciofi. Altri suoi posti del cuore erano ovviamente l’Enoteca Pinchiorri, ha conosciuto Giorgio all’apertura e lo ha seguito per tutto il suo percorso; e ancora Il Pescatore di Canneto (Antonio e Nadia Santini furono le ultime persone a venire a trovarlo a Montevertine prima che se ne andasse, portandosi dietro una pentola di cassoeula, il suo piatto preferito in assoluto), La Frasca di Castrocaro, Cantarelli a Busseto (in quell’occasione mi portò con sé!), La Locanda dell’Angelo di Ameglia, Gualtiero Marchesi quando ancora era a Milano.
Foto di Lido Vannucchi
Un posto in particolare poi è sempre stato La Pineta dello Zazzeri, a Marina di Bibbona, i miei andavano là in vacanza presso il loro stabilimento balneare, penso quindi che si stato il primo ristorante in cui io sia mai stato! Mio babbo amava bere soprattutto vini rossi, non disdegnando comunque bianchi e bolle, ma in minor misura. Le sue passioni (che mi ha trasmesso) erano i Pinot neri di Borgogna e i grandi Nebbioli di Langa, ma aveva anche un occhio per Lambruschi schietti e ovviamente, i nostri Sangiovese toscani.
Poi, al di là della tavola, era un bevitore seriale di Campari (aperitivo fisso, con ghiaccio e soda, quasi ogni sera) e di grandi Cognac e Whiskey, preferibilmente scotch e non torbati. D’estate poi un classico era la nostra Aqua Vitae on the rocks.
Al contrario di mio papà, Giulio Gambelli non era affatto un gran bevitore, lui i vini li assaggiava per curiosità e per lavoro, poi a tavola massimo un bicchiere. Conosceva però tutto, anche se non lo dava a vedere, come da suo stile.
A tavola i piatti preferiti di papà, oltre alla già citata cassoeula, erano sicuramente il bollito in tutte le sue forme, ogni specie di frattaglia (mi mandava dal suo fornitore di fiducia al mercato di S. Lorenzo, Riccardo, a prendere della roba che non potevo neanche guardare, tuttora se sento odore di lampredotto o rognone devo scappare, sono un fiorentino strano…), i salumi e formaggi di classe, la pasta e fagioli rigorosamente con gli spaghetti spezzati, la trippa, il cervello e le animelle fritte, la selvaggina, ogni genere di molluschi e crostacei specie se crudi. Non l’ho mai visto mangiare una fetta di carne “normale”!
Infine, la sua leggendaria Range Rover verde inglese, anzi le sue perché ne ha avute due di seguito. Nel bagagliaio c’erano sempre una coperta e un cesto con le cose necessarie per apparecchiare un picnic come si deve e tutte le guide gastronomiche aggiornate. Accanto a sé, sul poggiabraccio che era molto largo, un cuscino sul quale viaggiava Woody, il suo inseparabile barboncino color crema, che a ogni brusca frenata finiva inesorabilmente contro il cruscotto. Un giorno scese di casa verso il piazzale della cantina dove l’aveva parcheggiata e non ce la trovò. Tornò su dicendo: “Non ci credo, mi hanno rubato la macchina!” e tutti rimanemmo di sasso. Poi, guardandosi attorno, si scoprì che la macchina c’era, solo trenta metri più in basso, contro il muro della stanza di imbottigliamento. Non aveva messo il freno a mano… Scorza dura, comunque, salì a bordo, mise in moto, ingranò la retromarcia e andò dal carrozziere…”.
Ma vogliamo anche citare la testimonianza di Roberto Franceschini, ché Manetti era anche grande amico e cliente di Romano a Viareggio: “Ho avuto la fortuna di frequentare casa Manetti molte volte nel corso di questi ultimi 30 anni, con cene che si protraevano fino a tarda notte in compagnia di tanti amici. Io ascoltavo spesso in silenzio e cercavo di apprendere il più possibile da questi convivi. Il signor Sergio aveva sempre un pensiero gentile per le signore, una litografia in tiratura limitata, un orologio con l’immagine delle etichette del maestro Manfredi… Montevertine era ed è un luogo magico, un concentrato di bellezza sia dentro che fuori, con le collezioni di mille oggetti, in quella casa si respirava e si respira una signorilità mai affettata, non è mai una semplice visita aziendale, quando si varca quella soglia ci si sente davvero come invitati a casa. Io e Martino siamo entrambi figli di due fuoriclasse, non è mai stato semplice per nessuno di noi ereditare e proseguire il lavoro svolto dai nostri genitori. Io sono fortunato perché Romano è ancora giovane, e posso continuare a lavorare al suo fianco, Martino lo fa in maniera splendida da vent’anni, per quanto all’inizio abbia dovuto lottare contro la cattiveria e l’incomprensione di molti, ma si è preso tante rivincite. Spero di sedere ancora tante volte alla tavola di Martino e Liviana!”
Foto di copertina di Lido Vannucchi