Mondo Vino

Da assicuratore a vignaiolo di successo: la seconda vita di Stefano Legnani a Sarzana

di:
Alessandra Meldolesi
|
legnani

La Storia

Non è una Liguria da cartolina, quella dentro la quale si muove Stefano Legnani: al posto dei vigneti verticali delle Cinque Terre, le righe dei filari a guyot dove scrivere un’altra storia, in mezzo ai caseggiati di Sarzana. Uno scenario inconsueto, quasi urbano, quasi da garage, che racconta quanto fosse familiare e quotidiano il lavoro di vigna da queste parti una volta. Per divisorio le siepi forestali, il mucchio di cippato, fiori ed erbe che concimano la biodiversità. Sembra paradossale, eppure funziona, visto che non c’è ombra di inquinamento da agricoltura intensiva e il traffico veicolare langue.


Legnani ci è arrivato un po’ per caso. Anzi no, decisamente per amore: nella sua prima vita era un assicuratore di successo, alla guida di un’agenzia di Vicenza, già appassionatissimo di cibo e soprattutto vino. Al punto da fondare nel 1994 la Serenissima Accademia del Gusto, una confraternita di gourmet (ed è tuttora un agit-prop della migliore gastronomia del territorio). La conoscenza di vignaioli come Angiolino Maule, Vittorio Graziano e Stanko Radikon l’ha quindi precipitato nel gorgo della trasformazione. L’incontro della bella Monica Faridone, proprietaria di una vigna a Sarzana, ha fatto il resto. “Ma trovandomi le piante in casa, inizialmente pensavo solo di conferire l’uva a un amico. Invece è finita che ho espiantato ogni vite, perché c’era di tutto, uve bianche miste a rosse. Sono partito da un vermentino, che sto via via integrando con barbatelle di cloni diversi, per moltiplicare le sfumature. Di solito la prima uva, dopo tre anni, viene gettata; invece io l’ho pigiata, l’ho fatta macerare per quattro giorni e dopo qualche rimontaggio l’ho imbottigliata. Era il 2008 e i miei amici vignaioli a Fornovo mi hanno fatto i complimenti”.


Macerazione di 7 giorni, travasi all’aria, nessun controllo di temperatura e zero solfiti. Nel 2009 è uscito un Vermentino ancor più terragno, connotato da verdura cotta ed erbe officinali, come non se ne erano mai assaggiati sui Colli di Luni, dove tutto è fiori bianchi e gomma bruciata, inesorabilmente. “Invece questa potrebbe essere la Montalcino del vitigno, perché ogni duecento metri cambiano il suolo e la ventilazione; qui per esempio era pieno di sassi rotondi che abbiamo sgomberato, ciò che restava probabilmente di un’ansa del fiume Calcagno”.





Ma le referenze in realtà erano già due, con le uve della stessa vigna: il Ponte di Toi (dal ponte di tavole davanti al castello di Sarzana, sullo sfondo) e il Loup Garou, riserva sulle fecce fini che celebra un hit di Willy DeVille, cantante prediletto di Monica, replicato solo nel 2013, 2015 e 2016. Vengono imbottigliati rispettivamente a metà marzo e fine estate, perché secondo i vecchi di qui, racconta Legnani, i vini devono prendere il freddo dell’inverno e il caldo dell’estate.


È stato poi in seguito a un’annata sfortunata, la 2010, quando approfittando del pendolarismo la peronospera ha allignato, che l’occupazione di vignaiolo è diventata full time. Legnani oggi è agronomo ed enologo di se stesso, senza bisogno di laboratori di analisi: “Mi basta l’assaggio dell’uva e del mosto; quando mi piacciono, vado in bottiglia”. E il vino si è fatto via via più fine e territoriale, con la macerazione accorciata a 5 giorni, per non coprire il territorio.


Nel 2015 è stata quindi la volta di Bamboo Road, seconda bottiglia dedicata a Willy DeVille, le cui uve arrivano da un altro ettaro di vigna, adiacente il vialone contornato di canne di Marinella. Viti vecchie almeno 80 anni, queste: un mix di trebbiano e malvasia di Candia, malvasia toscana, albana e vermentino, come una volta usavano i mezzadri. Ha una bocca più dolce degli altri, per i vitigni aromatici portati alla maturazione compiuta, ma fotografa lo stesso territorio con le sue note balsamiche di erbe aromatiche, fra cui risalta l’elicriso, e un’acidità contenuta.

Tanto questi, suggerisce Legnani, sono vini da bere in gioventù, a secchiate. E ancora il Tafon, trebbiano prodotto solo nel 2012 (dopo di che la vigna è stata espiantata dagli eredi) a San Giovanni del Dosso, nei pressi di Mantova. A giudizio di Legnani “il mio miglior vino, nato dal sogno di un altro. Colui che ha accudito per 30 anni le viti in modo naturale, vendendo le uve alla cantina sociale. Il nome in dialetto significa schiaffo: un tafon in faccia a chi pensa che il vino buono possa arrivare solo da certe zone”. Infine Per Gino, unicum perché rosso e perché prodotto solo nel 2013, una malvasia nera piemontese in cemento firmata da Monica.


Ma le signorine, come Legnani chiama le sue sinuose viti, non si fermano mai. “Nel mio vivere il vino ho sempre tre fronti”, conclude. “Ho appena venduto l’annata 2018, ho nelle vasche la 2019, ma il mio cuore batte pensando alla potatura e alle attività agronomiche che porteranno alla vendemmia 2020”.

Wine Reporter

mostra tutto

Rispettiamo la tua Privacy.
Utilizziamo cookie per assicurarti un’esperienza accurata ed in linea con le tue preferenze.
Con il tuo consenso, utilizziamo cookie tecnici e di terze parti che ci permettono di poter elaborare alcuni dati, come quali pagine vengono visitate sul nostro sito.
Per scoprire in modo approfondito come utilizziamo questi dati, leggi l’informativa completa.
Cliccando sul pulsante ‘Accetta’ acconsenti all’utilizzo dei cookie, oppure configura le diverse tipologie.

Configura cookies Rifiuta
Accetta