“Molti viticoltori pensano solo a guadagnare di più. Questo non mi fa stare bene. Perché produciamo vino? In fondo potremmo fare altre cose. Perché lo facciamo? Molti viticoltori non sanno rispondere a questa domanda, anche se tocca l'anima stessa della viticoltura."
L'opinione
Tra i filari di Serralunga d’Alba, là dove la Langa si fa austera e nobile, succede qualcosa che ha più a che fare con la poesia che con la produzione enologica. Enrico Rivetto, produttore di Barolo alla quarta generazione (vi abbiamo raccontato qui la sua azienda e i suoi vini nella rubrica Weekend Wine), non è un semplice vignaiolo: è un dissidente gentile, un visionario con le mani nella terra e lo sguardo tra le stelle. In un tempo in cui il mondo del vino pare più che mai attratto da punteggi, classifiche e performance di mercato, Enrico ha scelto di camminare contromano. “Il vino non è l’obiettivo, ma uno strumento per fare qualcos’altro”, spiega a Decanter con una calma che non è rassegnazione, ma determinazione profonda. Il “qualcos’altro”, nel suo caso, è creare un luogo che generi felicità. Sì, felicità. Non profitto, non fama, non riconoscimenti. Bellezza, gioia, armonia.

Per farlo, ha dovuto sporcarsi le mani di dubbi e di terra. Ha guardato il Nebbiolo – quel vitigno che nel Barolo è quasi religione – e si è chiesto: “Hai davvero il coraggio di estirparlo per piantare cinorrodi?” La risposta è stata sì. Alcune file di viti sono state sacrificate per dare spazio a siepi, boschetti, zone umide. È tornato alla fattoria mista: cereali antichi, ortaggi, alberi da frutto, piante officinali. “Monocoltura? Che noia”, dice. Il paesaggio si è riempito di api, funghi, tartufi e bambini: oggi l’azienda ospita anche un progetto di homeschooling, con 24 piccoli ospiti quotidiani che imparano a potare, suonare la chitarra, fare conserve. Non tutto è filato liscio, ovviamente. “La natura è un sistema perfetto, ma contiene tutto, anche ciò che non ci piace. È difficile accettarlo, ma il male fa parte dell’equilibrio tanto quanto il bene.” Così, pianta mille alberi e ne muoiono duecento. Scopre che sotto il noce nulla cresce. Prova le anfore, sbaglia. Ma non si ferma. Perché “quando fai qualcosa di nuovo, è normale sbagliare”.

In un angolo d’Italia dove il vino è status, tradizione e talvolta gabbia, Rivetto osa domande che fanno tremare i calici: “Molti viticoltori pensano solo a guadagnare di più. Questo non mi fa stare bene. Perché produciamo vino? In fondo potremmo fare altre cose. Perché lo facciamo? Molti viticoltori non sanno rispondere a questa domanda, anche se tocca l'anima stessa della viticoltura." La sua risposta è semplice e radicale: “Ascolta il miglior maestro del mondo: la natura.” È lei, con la sua sapienza lenta e il suo ordine nascosto, a guidarlo nella trasformazione dell’azienda in un ecosistema vivo, pulsante. Dove il vino non è più il protagonista assoluto, ma una voce dentro un coro più ampio. Un mezzo, non un fine.

“Piemontesi chiusi, reverenti verso il Barolo”, dice. Ma lui non si piega a quella liturgia. “Meno competizione, più comprensione”, scrive nel suo decalogo. Non è uno da punteggi, ma da connessioni. Non cerca l’eccellenza a tutti i costi, ma l’armonia. E sa che l’entusiasmo – la parola che apre il suo manifesto – è una forza rivoluzionaria. Nel suo modo di pensare, c’è qualcosa che va oltre l’agricoltura biologica o il marketing esperienziale. È una forma di resistenza culturale, una risposta dolce e radicale a un mondo agricolo e imprenditoriale che troppo spesso si dimentica dell’essenziale. “Non basta parlare al bar o lamentarsi online”, ammonisce. “Hai un potere dentro – si chiama entusiasmo. Devi essere protagonista del tuo micro-mondo. Fai qualcosa.”

E lui lo sta facendo. Con gesti concreti, con errori ammessi, con una filosofia che suona come una boccata d’aria fresca in un settore troppo spesso intrappolato tra etichette e fatturati. Enrico Rivetto non ha solo ridato ossigeno al suo vigneto, ma ha innestato una nuova idea di viticoltura. Una che non punta a stordire il palato, ma ad aprire la mente.
