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Bonotto delle Tezze e il suo Raboso: la cantina che riscopre un vitigno millenario

di:
Marco Colognese
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copertina bonotto vini

Una famiglia dalla lunghissima tradizione agricola e un vitigno millenario da (ri)scoprire: Antonio Bonotto racconta l’eleganza scattante del suo Raboso Piave Doc Potestà.

L’azienda

Pensando alla provincia di Treviso da un punto di vista enologico, appare abbastanza scontato che il primo vino che ci viene in mente sia il Prosecco, con i suoi numeri da record e le sue mai abbastanza approfondite sfaccettature. A dire il vero sarebbe bene parlare un po’ di più anche delle nicchie, soprattutto quando nascondono, come in questo caso, sorprese qualitativamente notevoli. Siamo stati a trovare Antonio Bonotto e sua moglie Vittoria a Tezze di Piave e abbiamo appreso un’affascinante storia di secoli che ha come protagonisti una famiglia, la sua tradizione agricola lunghissima e un vitigno, il Raboso, tanto scorbutico e difficile quanto buoni e interessanti sono i vini che ne possono derivare.

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Il sogno di Antonio è sempre stato quello di fare un grande vino rosso: “Ci crediamo, l’abbiamo sempre fatto: è un lavoro di eterno recupero ed eterne potenzialità.” Ma veniamo a un racconto che con Luigi, enologo, figlio di Antonio e Vittoria, è arrivato alla diciottesima generazione, perché le prime testimonianze della famiglia, in questo territorio di pianura delimitato dalle Prealpi Trevigiane e dalla riva sinistra del Piave, risalgono al XV secolo.

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Fu in quel periodo che iniziarono a essere configurati i casati e il nome Bonus si trasformò prima in Bonotus e poi ancor Bonotto, ovvero ‘buono’, ‘che porta bene’. Racconta Antonio: “La storia documentata è importante. Probabilmente il vitigno è presente qui da almeno duemila anni e ha avuto diverse fasi. Sicuramente una di queste è stata in epoca veneziana: abbiamo dei contratti stilati tra il 1500 e il 1600 in cui si parla di ‘botti da consegnare di vino negro per Venezia’. Questo era il Raboso del Piave che non veniva mai bevuto puro ed era tagliato (a Venezia allora fungeva quasi anche da disinfettante, data la qualità dell’acqua) e la sua impronta acida rappresentava un conservante naturale. All’inizio del secolo scorso veniva utilizzato come vino da taglio per il Sangiovese in Toscana e correttivo per colore e acidità.

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Mentre il testimone della denominazione Piave passa dal padre che lo fa nascere nel 1959 ad Antonio che da presidente lo chiude confluendo nella DOC Venezia, il Raboso continua la sua strada: “Siamo arrivati stancamente fino agli anni Ottanta con pochissimi produttori, spesso legati a famiglie nobili, ma i numeri arrivavano dai vini da osteria e dal Raboso alla spina, creando una confusione sul prodotto che veniva svilito, nonostante rimanesse la tradizione di vino da invecchiamento, quella che ero abituato a vivere in famiglia. A metà del decennio successivo qualche collega, come Cecchetto e Casa Roma tra gli altri, per primi hanno voluto guardare avanti. All’inizio io non ho partecipato, perché per me il Raboso doveva essere quello che facevamo qui con mio padre.

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Poi però si è creata la confraternita dei Piave Boys e si è iniziata a comporre la diatriba tra innovatori e tradizionalisti, con i primi che guardavano alla Valpolicella e all’appassimento e i secondi alla purezza più rustica. Continua Antonio: “Ci siamo ritrovati nella stessa DOC con numeri piccolissimi, che cosa potevamo fare? Così ho avuto la responsabilità di interpretare quel momento, perché, non sarebbe stato giusto tarpare le ali a chi voleva innovare, ma neppure il contrario. Ecco allora che è nata la nuova denominazione Malanotte del Piave, il nome di un’antica famiglia e la casa di chi voleva fare qualcosa di diverso e far sedere il Raboso nel salotto buono dei vini italiani”.

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Il vino

Certo, la produzione di questa bella azienda non è soltanto legata al Raboso, ma vale la pena soffermarsi su questo vino per un motivo molto semplice: lavorato come si deve, è buonissimo, sia nella sua versione più tradizionale sia nel più rotondo Malanotte. Quando parla di quest’uva, si sente quanto appassiona Antonio: “È paradossalmente molto moderna, pur essendo di origine molto antica. Intanto è quasi indifferente agli effetti del cambiamento climatico. Ne deriva un vino che ha questa tendenza ad accumulare l’acidità e non gliela cambi. Per me il Raboso è quello che ai tempi di mio papà veniva dimenticato per otto, dieci anni nelle botti e poi si imbottigliava. C’è un lavoro enorme anche per piccoli margini di miglioramento sia in campagna sia in cantina, oggi però, a differenza di una volta, abbiamo gli strumenti.

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Così è stata abbandonata la vecchia tradizione della bellussera, molto suggestiva anche dal punto di vista paesaggistico, sistema perfetto per un vino quotidiano ma non se si vuole alzare un minimo l’asticella. Questa è una vite vigorosa, scorbutica, le ha tutte, germoglia molto presto e c’è quindi il pericolo di gelate tardive. Poi è l’ultima che matura e noi per il vino da invecchiamento andiamo a vendemmiare a novembre. Costringe a un lavoro incredibile in vigna, ma stiamo iniziando a capire e a scrivere una pagina nuova, è tutto da inventare e provare: ed è molto stimolante”.

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Abbiamo assaggiato sia il Malanotte, elegantissimo nella versione che ne dà Bonotto delle Tezze, prodotto in quattro, cinquemila bottiglie, sia il Potestà, tra le otto e le dodicimila a seconda dell’annata, che Antonio immette comunque sul mercato almeno a tre anni dalla vendemmia, perché “è un vino di nicchia, ha molta personalità, va rispettato e deve avere il tempo di maturare”. Raboso in purezza, il Potestà arriva da particelle caratterizzate da scheletro, nel cui terreno i sassi sono evidenti sia in superficie sia nel sottosuolo e garantiscono un ottimo drenaggio, fondamentale per il clima autunnale della zona. La resa è intorno agli ottanta quintali per ettaro e la vendemmia è decisamente tardiva, tra la fine di ottobre e la prima metà di novembre.

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La macerazione sulle bucce va avanti in acciaio per circa venti 20 giorni e la svinatura viene effettuata con gestione della fermentazione malolattica. Durante l’inverno il vino decanta naturalmente prima di essere trasferito in legno grande in primavera e restarci per oltre due anni prima di andare in bottiglia. Al naso si apprezzano note di viola, ciliegia e una leggera, elegante speziatura. Sorseggiandolo è evidente l’acidità, ma per nulla sgarbata: è un vino fresco, vibrante, lungo. Un gran bel vino, insomma.

Indirizzo

Azienda Agricola Bonotto delle Tezze

Via Duca D'Aosta, 36, 31028 Vazzola TV

Tel: +39 0438 488323

Sito web

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