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Terroir Martesana: al Volm la bistronomia neorurale di Lorenzo Vecchia e Olexandra Marfia

di:
Alessandra Meldolesi
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volm copertina 970

A Pozzuolo Martesana, dove la metropoli tocca la campagna, Lorenzo Vecchia e Olexandra Marfia lavorano a un originale concept di bistronomia neorurale.

La Storia

La Storia di Lorenzo Vecchia


Da un lato Milano, capitale gastronomica italiana; dall’altro una campagna tanto fertile quanto sorprendente per la vitalità del suo tessuto produttivo. È su questo confine che hanno scelto di collocare il loro ristorante Lorenzo Vecchia e Olexandra Marfia, a Pozzuolo Martesana. Dove basta qualche giro di pneumatici per affondare le calosce nella terra, ma l’orizzonte è già cosmopolita e metropolitano. Una resistenza gastronomica contro lo sterminio dei campi di cui parlava il poeta Andrea Zanzotto.

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Al piano terra di un condominio anonimo, le tendine bianche lasciano intravvedere una sala ampia e curata. “La ristrutturazione è durata 6 mesi, prima dell’inaugurazione il 16 settembre 2016, e ce ne siamo fatti carico in prima persona”, racconta Lorenzo. “Abbiamo realizzato praticamente tutto da soli, senza architetto né geometra. L’idea era quella di creare un ambiente familiare con un salottino accogliente, che però ricordasse certe atmosfere nordiche nella sobrietà degli arredi. E il nome sono le nostre iniziali, sparigliate”.

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Non a caso i tavoli nudi sono accuditi dai cuochi: Lorenzo e Olexandra, detta Sacha, più un aiuto. E la stessa carta dei vini porta la loro firma: conta un’ottantina di referenze, quasi tutte di vini naturali o biodinamici; ma l’abbinamento punta spesso su originali miscelati e bevande fatte in casa, quali vermouth, sciroppi e idromele, per il divertimento di variare e per l’incastro organolettico ideale.

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“Sono nato qui”, racconta Vecchia. “Vicino a tanti centri: Bergamo, Monza, Milano, Parma. Dove però c’è ancora poca ristorazione. Soprattutto mi piacevano le campagne e conoscevo già i prodotti. Abbiamo scelto subito di lavorare con realtà poco conosciute, come un’azienda agricola biologica a Cernusco, che ci consente di scegliere sementi e punti di maturazione e di raccogliere direttamente. Per le carni ci sono due macellai: uno a Rivalta, che macella su ordinazione ma raramente; l’altro qui in paese per supplire alle mancanze del primo.

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Tutte carni locali, anche se il nostro è un chilometro elastico: ci basta conoscere la filiera e soprattutto le persone. Qui di fronte, ad esempio, abita un signore che ha il permesso per vendere la selvaggina che caccia e il suo pesce di acqua dolce; abbiamo già stretto accordi con Dino Massignani della Riserva San Massimo per utilizzare i suoi selvatici da abbattimento selettivo, dolcissimi perché alimentati con le vecchie piante di mais della tenuta e non a tuberi. Ma può capitare che mio zio mi spedisca le alghe dal Giappone; la famiglia di Sacha è siciliana e dall’isola arrivano il nero di seppia e la bottarga di un pescatore”.

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Poi c’è l’orto di 70 metri quadrati a Trecella, dove dalla prossima primavera verranno piantate erbe aromatiche e verdure da taglio, da coltivare con metodi biologici e senza irrigazione; mentre dalle terre di Sacha provengono mandorle e noci, agrumi e soprattutto olio. “Abbiamo iniziato per gioco, senza gli insegnamenti di nessuno, ma sono cose che crescendo in campagna abbiamo sempre visto fare”. Qualche suggestione arriva pure dall’Ucraina, patria di Olexandra: in carta è già entrato un borsch mentre ferve il lavoro sui varenyki, tipici ravioli preparati con una pasta lievitata a partire dal latte, soffice e acida, e una farcia di purea di patate. Né mancano i fermentati e la panna acida fatta in casa.

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Il menu non cambia con cadenza fissa ma secondo le disponibilità dei prodotti, cosicché un piatto può restare in carta 5 giorni oppure 2 mesi, ma ogni due settimane si rinnova mediamente per metà. Sono tutte ricette nate dallo studio di un singolo prodotto, lavorando a due sensibilità e a quattro mani per un esito di divertimento puro, dato il tasso di creatività a tutto Volm. E le coordinate sono quelle dei giovanissimi: tanto vegetale e tantissime erbe aromatiche, contaminazioni soprattutto orientali, nelle cotture e nelle speziature, ma anche tanto territorio, visto con il cannocchiale di tecniche poco invasive.

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Lorenzo è forse un po’ più tecnico, avendo battuto i grandi ristoranti: prima e dopo una borsa di studio a Toronto, ha cucinato da Cracco, che gli ha trasmesso la cultura del lavoro e il senso della gerarchia; sono seguite due stagioni di 8 mesi al Venissa di Antonia Klugmann, esempio di rispetto per la terra e sensibilità in cottura, intervallate da uno stage con Martin Berasategui; per finire con Lorenzo Cogo, “un grande cuoco che mi ha insegnato la pazzia: all’improvviso saltava fuori con l’idea di un nuovo piatto oppure la notte infornava un pane mai provato, non stava mai fermo e interpretava il suo territorio, come cerchiamo di fare anche noi”.

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E proprio a El Coq Lorenzo ha conosciuto Olexandra, che dal canto suo racconta: “Sono entrata in cucina a 6 anni con mia nonna, per preparare zuppe e paste. Poi, dopo avere frequentato ragioneria, all’università ho preferito un corso di cucina a Palermo. Mi sono fatta le ossa in 5 o 6 ristoranti della zona e ho deciso di perfezionarmi ad ALMA, che mi ha spedita in stage a Marano. Ed eccomi qui”.

I Piatti

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Oltre alla carta e al menu del pranzo, ci sono tre degustazione: 5 portate a 45 euro, 7 a 65 e 9 a 80, con il supplemento di 25, 40 e 60 euro per abbinamenti in scala. “Le ricette partono sempre dall’elemento vegetale, da un taglio minore o di quinto quarto, e attorno a esso costruiamo il piatto. A tavolino ci chiediamo come renderlo al meglio, cercando l’aggressività, i contrasti, l’acidità o l’equilibrio. Come in un brainstorming, dove io risulto forse un po’ più spinto, mentre Sacha cerca soprattutto l’armonia”.

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Il benvenuto è un tè nero nepalese allo zenzero servito in una tazzina artigianale ucraina, seguito da un brodo di fagiano preparato come un dashi, con partenza a freddo, breve ebollizione, infusione della carcassa e riduzione del liquido, seguita dalla chiarificazione attraverso colla di pesce. Dove la liquidità calda prepara lo stomaco, ricreando una sensazione di zuppa orientale speziata in due tempi. Con l’alternativa, a tecnica invariata, di un brodo di prosciutto la cui sapidità “pulisce la bocca”.

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Dopo l’entrée stagionale di crema di topinambur con topinambur al forno e buccia fritta, il primo antipasto è il carciofo appena scottato, leggermente grigliato e sfumato al gin, più una spruzzata a fine cottura per sgrassare con l’alcol crudo, servito con uova sbriciolate e una maionese molto acida, più una salsa alle mandorle per legare. L’asse è amaro/grasso, con l’abbinamento di un gin tonic alle erbe sospese (timo e maggiorana) che riprende le linee del piatto.

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La lingua di vitello è cotta a bassa temperatura, per 18 ore a 63 °C, fino a consistenza “di prosciutto cotto” ma senza condimenti, poi servita con il nero di seppia per la sapidità, una salsa alle nocciole tostate per legare, scalogno bruciato per la nota fumé, rafano e aria ai chiodi di garofano per l’aggancio alla ricetta di casa.

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Ottimi i primi. I ravioli di topinambur riportano il tubero nella sua terra attraverso un consommé di bucce di patata, polveri di capperi e caffè in stile Alajmo, per un’apparenza quasi fangosa; sono accompagnati da un cocktail di vino di prugne agrodolce, whisky, gazzosa e chicchi di caffè tostati in liaison. Ma non sono da meno i tagliolini di farina di lenticchie e fagioli fatti in casa con garam masala, pere candite e spuma di whisky, che si tuffano nel Gange recuperando un binomio della pasticceria classica, quello della pera, al posto dell’uvetta, con il whisky, in modo da sdrammatizzare con una sensazione di provola affumicata.

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E ancora il Carnaroli della Riserva San Massimo risottato all’acqua e generosamente mantecato con burro affumicato, guarnito di polvere di radicchio e bottarga per l’amaro, e i tagliolini alla chitarra preparati con purea di barbabietola e cotti nel centrifugato della stessa, più stracciatella, gel di porcini e caviale di aringa affumicato, per una sintesi amorosa fra forme italiane e gusto slavo che celebra il sodalizio fra i due cuochi.

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È quasi un intermezzo il porro cotto a bassa temperatura con burro al miele e paprica, poi rosolato e finito in forno. Viene servito con purea di castagne al brodo di fagiano, polvere di radicchio in liaison con il primo piatto e mibuna, un’erba piccante simile al crescione.

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Come nella cucina classica, prima del secondo di carne arriva il quinto quarto. Si tratta di cuore semicrudo, rosolato fino a intiepidire l’interno e affettato, servito con salsa all’aglio, capperi sabbiati con l’albume al sale, verza grigliata ed essiccata, erba tatsoi legata alla mineralità della pièce. Per un mix goloso punteggiato di consistenze diversamente croccanti.

Segue il filetto di vitello cotto a bassa temperatura, rosolato e finito in forno, sposato al limone nella cover di una scaloppina di casa: sul piatto ci sono la salsa di buccia, la confettura di agrume intero, la scorza amara in agrodolce e il brodo di albedo, ma la cottura è leggermente da rivedere nei tempi di riposo.

Il predessert getta la sua passerella fra salato e dolce, invertendo ironicamente inizio e fine: si tratta di un’acciuga cantabrica con confettura di peperoni, sulla falsariga dell’antipasto piemontese.

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Chiude il gelato al cioccolato bianco con meringa al tè matcha e tè matcha, salvia cristallizzata, cavolfiore crudo in lamelle appena ripassate nel latte e riduzione dello stesso a dulce de leche, per la circolarità e il riciclo. Un dessert imperniato sul contrasto fra grassi e tannini, dove il vegetale è protagonista. “Ma anche un riepilogo delle nostre esperienze, con il dulce de leche per la Spagna, il cavolfiore per la Sicilia e la digressione orientale”. In accompagnamento c’è un vermouth fatto in casa con il vino dei contadini del luogo e 22 erbe strappate dall’orto, che avevano resistito solitarie al gelo, in liaison dangereuse con la componente tannica e amara del piatto.

Tutte le fotografie sono di Lido Vannucchi

 

Indirizzo

Ristorante Volm

Via IV Novembre 55/57 - 20060 Pozzuolo Martesana (MI)

Tel. +39 02 95358617

Mail: ristorante@volm.it

http://www.ristorantevolm.com

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