La cucina del Reale non sembra risentire della partenogenesi imprenditoriale in corso: prosegue anzi il suo carotaggio nelle profondità di un quotidiano mai così enigmatico e dirompente.
La Storia
Non bastavano il Reale e la sua scuola di cucina, con camere e produzione di Pecorino in alta quota: negli ultimi anni a contendersi l’agenda sempre più fitta di Niko Romito sono stati i diversi Spazio, Bulgari, Bomba, Alt nonché il progetto di intelligenza nutrizionale presso l’ospedale Cristo Re di Roma. Eppure la cucina gourmet non ci ha scapitato, anzi a dispetto della modesta scivolata ai 50 best ricorre insistentemente fra le preferenze di addetti ai lavori e gourmet. Lo stesso Bob Noto agli amici confidava, che gli sembrava quella maggiormente in ascesa.“Ed è stato proprio Bob a fornirmi la chiave per interpretare la mia cucina”, ricorda Niko. “Un giorno al Reale mi ha chiesto quale fosse la mia fonte di ispirazione e io sono riuscito a rispondere solo in negativo, citando ciò che non mi stimolava. Allora ha detto la sua: che si trattava della cucina italiana di casa, affine per strutture e descrizioni. Che cosa mangiamo stasera? Spaghetti al pomodoro, verza, carciofi…” Proprio il mistero del quotidiano anima una stilistica riconoscibile e coerente, classica nella sua brevità. “Ciò che più mi interessa in questo periodo è nobilitare un ingrediente comune, in modo che possa regalare le stesse soddisfazioni di un feticcio. Le verdure sono servite con forchetta e coltello, tanto è importante il morso, ma senza salse o guarnizioni. Perché tutto è nella materia: l’estetica, il condimento, la struttura. Una ricerca invisibile, che non avrebbe senso fotografare”.
Lo schema continua a essere quello degli assoluti, se possibile ulteriormente radicalizzato, nel solco di Marchesi e della sua cucina per sottrazione. Il modus operandi tuttavia è in questo caso di sottrazione per stratificazione, nel senso che la materia viene isolata e poi sottoposta a molteplici elaborazioni, che ne differenziano il profilo e il ruolo, rendendola autonoma. Per riuscirvi sono necessari innumerevoli tentativi, sul singolo grado in più o in meno, la grammatura al bilancino del sale, l’evoluzione puntiforme di ossidazione e maturazione.
E le tecniche, niente affatto invasive, sono in larga parte proprie. Cosicché l’intero menu degustazione è praticamente privo di grassi aggiunti: una rivoluzione nella rivoluzione che propizia sensazioni nitidissime, senza opacità o appannamenti. A dimostrazione del fatto che si può essere radicali senza avanguardismi: come una rivoluzione gentile.
I Piatti
Gli appetizer sono coerenti con i piatti del menu: quotidiani, familiari, brevi, il soffice di pistacchio, come la patata sotto la cenere dalla testura di crocchetta, la tartina di pomodoro arrosto al miele come l’”affettato” di manzo al vapore affumicato con pane di saragolla, solina e perciasacchi. “Non va diversamente con la piccola pasticceria, che oggi si compone di frutta, secondo la tradizione italiana. Mentre il predessert non esiste più. Lavoro pochissime cose che non riempiono, senza mescolare troppi gusti”.
È un’epifania (nell’accezione joyciana secondo la quale “l’anima del più comune degli oggetti, la cui struttura si sia così disposta, ci si mostra nel suo trasparente splendore”) il cavolfiore gratinato, monoingrediente al pari del carciofo del 2012, che fece storcere il naso a qualcuno. In entrambi i casi la stratificazione mira ad aumentare la complessità e rendere autonomo l’ortaggio attraverso il dispiegamento delle sue potenzialità gustative e tattili, in modo da farlo esplodere in bocca. Ma lo schema non è meccanicistico: nella Melanzana arrosto e caramello di pesca si affacciano due condimenti, di pomodoro e caramello naturale di pesca. “Cercavo la rotazione completa del gusto, ancora incompleta, per muovere e sottolineare l’ingrediente. Senza scivolare nel manierismo”.
La prima versione del cavolfiore risale al 2017, ma non sono mancate le messe a punto, fino a qualche mese fa. Si tratta di un ortaggio comune, per quanto coltivato in altitudine e ancor più idoneo fuori stagione, per il ridotto contenuto di acqua. Viene prima cotto al vapore, preservando i succhi, poi lasciato maturare in una fermentazione gentile e controllata per una settimana abbondante in atmosfera modificata, in modo che grazie al lavoro degli enzimi il gusto si complessifichi virando verso l’acidità, che compensa la naturale dolcezza. Segue la tostatura ad alta temperatura in forno per l’effetto croccante e l’amaro, che evoca la gratinatura. Ma il cavolfiore è presente anche in forma di laccatura, ottenuta da un estratto ridotto sul fuoco, e “sabbia” di cimette spadellate velocemente e battute al coltello per il pangrattato. L’equilibrio è fra dolcezza, acidità e amaro, mentre in bocca si rincorrono le strutture. Né mancano note di umami e perfino di acciuga, come se i binomi della tradizione fossero presenti in nuce dentro la materia: una ricetta a ritroso.
Il vegetale non viene prima o dopo gli altri piatti: per Niko è un cammino parallelo con le altre corse del menu. Come il celebre pane con le patate, portata a sé. Seguono le costine di agnello al vapore, leggermente piastrate per scongiurare l’omologazione da Maillard, con tartufo nero pregiato e vermouth per sgrassare e speziare. E il rombo alla brace con polvere di capperi, genziana ed emulsione del suo brodo. Un semi-assoluto che ha richiesto un lungo lavoro, dove risalta la testura del pesce, celebrata dalle posate da carne: viene ottenuta attraverso la marinatura di 12 ore in acqua e sale e l’arrostitura sulla brace, per la potenza del fuoco che non asciuga e la nota fumé sulla genziana. Mare e montagna, struttura e amaro bilanciati da limone salato e polvere di capperi.
E finalmente un piccione lontano dai soliti nidi. Senza pelle né Maillard, per non camuffare la dolce purezza della carne, è anch’esso sottoposto a cotture plurime: passato tre volte alternativamente per un minuto sulla brace e nel ghiaccio, per iniziare a denaturare le proteine e bloccarle senza farle collassare o perdere succhi, quasi un’estremizzazione di shabu-shabu, presenta una sezione perfettamente omogenea. Viene accompagnato da senape e chiodi di garofano, in sinergia con la ferrosità della carne.
Ma Romito riesce anche a stupire nel finale con una pasticceria straordinariamente coerente. “Spesso il dolce non dialoga col salato, come se fosse un altro campionato. Ma bisogna conoscere la pasticceria classica per scrivere la propria. Lo zucchero può esserci o meno, perché è un marcatore come il sale. In una piccola percentuale può esaltare equilibri sottili, allo stesso modo in cui l’estratto di rosmarino amplia e prolunga il gusto vegetale attraverso note balsamiche e resinose. Un ingrediente che a volte non dichiaro, perché quasi impercettibile e funzionale ad altro”. Una costante è invece la carica aromatica e digestiva nella massima leggerezza. Vedi la granita di liquirizia e aceto di vino con cremoso di cioccolato bianco e Balsamico, virtuosistico rimpallo fra due acidità (anzi tre: l’estratto di mela verde nel cioccolato bianco, non dichiarato) che ripuliscono il palato dopo il pasto in sinergia col balsamico. Non monoingrediente, ma monogusto o quasi. “Mi piace come la liquirizia e l’aceto si esaltano a vicenda. Il primo cucchiaino sembra sbilanciato, ma già al secondo boccone il palato si è adattato e riesce a percepire gli altri gusti. E c’è stato un lavoro importante sulla granita, perché si pensa sempre troppo poco a come la masticazione determina la percezione. Con la ricetta classica mancava lunghezza, ma aggiungendo pochissimo amido di riso all’acqua ho aumentato la persistenza necessaria all’equilibrio. Questione di scienze sensoriali”.
Non è meno folgorante Infuso di limone, ottenuto per contaminazione a freddo di tutte le parti del limone: polpa, buccia e albedo messe sottovuoto per 30 giorni: quasi un limoncello in sottrazione di zucchero e alcol, intensissimo, aromatico, amarotico. “Ed è una tecnica ad ampio raggio, che uso con le cime di rapa crude, esaltando il vegetale e il metallico in un sorso che sembra un morso, o la carcassa di anatra in un brodo a freddo purissimo”.
I Vini
Poi c’è il vino. Giovanni Sinesi affianca Romito dal 2004, subito dopo il diploma alberghiero e qualche stagione in giro. Frequentati i corsi AIS, si è formato con Maurizio Menichetti da Caino. La sua carta dei vini conta 500 etichette, fra cui il Pecorino in alta quota della casa: c’è un po’ di tutto, Abruzzo, Italia, Spagna e grandi riesling, passione personale insieme al Brunello di Montalcino.
In materia di abbinamenti predilige le geometrie variabili: i punti fermi sono pochi, il resto cambia in base alle preferenze dell’ospite, alla stagione e all’emozione che scaturisce al tavolo. Cercando sempre di scongiurare il déjà-bu. La costina di agnello, per esempio, manifesta una tendenza dolce e grassa, esaltata dalla morbidezza del tartufo. Ed è in quella dolcezza che il vermouth Scarpa trova il suo punto di fusione, mentre l’alcol pulisce e bilancia. Lo stesso piatto tuttavia può essere abbinato a un Refosco o uno Schioppettino non troppo invecchiati, per le sensazioni speziate che sposano l’aromaticità del tartufo; in estate anche a un rosato. Sul cavolfiore Sinesi opta per un Riesling Spätlese Julian Haart 2016, la cui tendenza dolce e acida mima il piatto. “Un gioco di acidità su acidità, altrove di amaro su amaro apparentemente eretico, che va in dolcezza e in pulizia”. Sulla granita di liquirizia per lo Chenin Moulin Touchais 1981, che con la sua dolcezza e complessità smorza l’acidità del dessert, mentre la nota ossidativa aggancia il balsamico. “Ma sono particolarmente fiero di aver sposato la misticanza alcolica a un Moscato d’Asti, vino solitamente stappato sul dessert, che con la sua bollicina ripulisce il palato dalla grassezza della mandorla, di cui prolunga il gusto, mentre bilancia con il residuo zuccherino la sensazione alcolica e amara del Gin e delle erbe”.
La foto di copertina è di Alberto Zanetti
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