I Pupi approdano a Villa Palagonia e il racconto è quello di una Sicilia forte che, tra arte e storia, alza lo sguardo su ciò che c’è di più lontano.
C’è un prima e un dopo nella storia de I Pupi, il ristorante 1 stella Michelin di Chef Tony Lo Coco, oggi rinato negli spazi nobiliari dei corpi bassi di Villa Palagonia, famosa per le figure mostruose che ne cingono le mura settecentesche. Un salto di pochi metri, la nuova sede è proprio di fronte alla precedente (ora divenuta TuMa, trattoria costola de I Pupi). Il ristorante, firmato dallo studio Luigi Smecca Architetti, si sviluppa su quasi 200 mq distribuiti in quattro ambienti distinti, con 45 coperti e un’identità profondamente ripensata.



La vera novità risiede in tre format esperienziali, che coesistono. Ci sono le sale tradizionali, su più livelli, raffinate e adornate dalle celebri opere d’arte su tovagliolo. C’è la cantina-caveau, una saletta privata che ospita fino a 1.300 referenze e che può accogliere massimo sei ospiti; qui il sommelier Andrea Prizzi celebra e narra le migliori etichette del mondo in abbinamento a tapas siciliane d’autore. Infine l’atteso Chef Table, una cucina “abitata” dallo chef, dove si assiste in diretta al gesto creativo e si entra davvero a casa di Tony Lo Coco, immersi tra piatti, aneddoti di vita e pensieri.



L’illuminazione è calda, progettata per avvolgere gli ospiti e ogni dettaglio è su misura, dagli arredi artigianali ai materiali tecnologici della cucina a vista. Un ristorante che si racconta attraverso il design, la memoria, ma anche per via di una visione aperta e in continuo movimento.

Chef Tony Lo Coco, l’arte dell’ospitalità e la cucina come racconto libero
Tony Lo Coco è chef autodidatta e, proprio per questo, profondamente libero. Nato nel 1974 e cresciuto tra Palermo e i borghi marinari di provincia, ha costruito la sua identità gastronomica a partire dalla memoria familiare. Poi sono arrivati i viaggi e le esperienze ad arricchire la sua passione. Il primo passo professionale lo ha mosso nel mondo del banqueting con “Cozzo dei Ciauli”: location di ricevimenti di successo che ha gestito per 15 anni in un periodo in cui il banchetto era forse l’emblema della ristorazione, quella più apprezzata, conosciuta e si, anche quella più redditizia. Eppure Lo Coco e sua moglie (nonché socia) Laura Codogno hanno sempre sentito fortemente il bisogno di nuovi stimoli, nuove idee.

“Quell’esperienza mi ha insegnato e dato tanto. C’era molto lavoro ma sentivo che mi mancava qualcosa perché, a pensarci bene, desideravo instaurare con gli ospiti uno scambio, un rapporto che con i banchetti non si creava. Volevo di più!” dice. È il 2009 e nasce I Pupi. La proposta è fine dining ma la sua indole è quella dell’oste: “Il cliente deve sentirsi a casa – spiega – e ordinare ciò che desidera, anche alla carta. Il fine dining non deve essere una gabbia, ma una possibilità”. Una visione d’insieme che forse è stata la vera carta vincente e che gli ha garantito una stella Michelin a cinque anni dall’apertura. Un tratto di libertà che è emerso fin dagli inizi: per promuovere il ristorante, Lo Coco iniziò a proporre uno scambio affascinante agli artisti che lo frequentavano – un piatto in cambio di un’opera d’arte direttamente sui tovaglioli del ristorante. Nacquero così i celebri tovaglioli d’artista, oggi incorniciati nelle sale de I Pupi. Testimonianze firmate da grandi nomi come Hidetoshi Nagasawa, Croce Taravella, Michele Cossyro. Un racconto artistico che si tramutava in racconto gastronomico.



I piatti: quando la Sicilia raggiunge il mondo in sedici passaggi senza confini
Quella di Chef Lo Coco è innanzitutto una grande alchimia di sapere e conoscenza. I rapporti simbiotici con i pescherecci della frazione marinara di Aspra, i ricordi delle tavole imbandite di una volta ma soprattutto i sapori della Sicilia del passato che si fondono con gli input oltreoceano. Tutto questo è il nuovo Chef Table, capace di sorprendere e spiazzare. A differenza dei menu proposti in sala qui c’è molto di più che semplice tradizione, un modo per stupire anche gli habitué del ristorante con un semplice sgabello e una vista sulla cucina.



Si comincia con una serie di amuse-bouche che raccontano Palermo e non solo: crumble di pane al pomodoro con “canazzo” palermitano, finto cannolo, tacos di farina di ceci, bao con tartare di vacca cinisara, insalata liquida di pomodoro da bere a mo’ di pipa, pane con crema di ricotta e caciocavallo e un sorprendente sostituto della milza con fegatino di seppia. Accanto, burro francese al limone verdello di Bagheria, grissini di grani siciliani e pane di tumminia. L’abbondanza si fa largo, decisamente, ma cede il passo a giuste rivisitazioni che attingono dall’Asia.

Si passa poi ad assaggi di grande freschezza e intensità: anguria con panna acida, zucchina genovese e gelato al cetriolo seguito da un’ostrica con mayo di ‘nduja e salsa di soia e vongole, da gustare direttamente dal suo guscio; scampo crudo con cocomero croccante e sedano amaro in un gioco di trasparenze velate e ombre; infine, muccuna (lumache di mare locali) con mayo al wasabi, salsa di miele-miso-soia e patate. “Amo ricreare sempre una nota agrodolce prendendo spunto dall’Oriente ma anche dagli antichi usi siciliani. Un tempo infatti era questo il principale metodo di conservazione, con l’aceto e lo zucchero si facevano tante preparazioni” spiega lo chef.


Proprio il dolce diventa poi ispirazione per una portata salata: il riccio di mare, o meglio il suo guscio, prende vita da un bacio pantesco di spaghetti fritti al nero di seppia. Al suo interno la polpa del riccio, e tutto intorno sabbia di tumminia, spugne di salicornia e prezzemolo con crema di nduja in purezza. Le consistenze si alternano in un gioco di sali e scendi, proprio come in un tuffo in mare. Altro omaggio siciliano è l’arancina destrutturata: l’isola riprende le sue geometrie, delineate da una densa crema di riso allo zafferano, con sopra maialino dei Nebrodi e mollica fritta. Segue lo spaghetto con gallinella, vongole flambé e aria di pompelmo. Un piatto che osa e riesce, pungente e acido, ma irresistibile.



Il timballo di anelletti rivisita la tradizione con un ragù di calamari e salsa di uova di pesce San Pietro, coronato da una cialda croccante di pasta stracotta e fritta. A chiudere, un vero tributo al cibo di strada: la stigghiola, che diventa di mare, con tonno, seppia e cipollotto avvolti in un abbraccio affumicato. E poi il gelo di anguria – “che si trova solo a Palermo e solo in estate”, sottolinea lo chef - con gelato alla mandorla di Avola, gelèe al caffè e mini brioche col tuppo. Il cannolo con ricotta calda è l’ultimo abbraccio, dolce e profondo, a questa Sicilia che non è mai solo Sicilia, ma mondo, visione, storia.


Un nuovo inizio tra memoria e futuro
Con questo nuovo capitolo de I Pupi, Tony Lo Coco firma un manifesto della sua idea di ristorazione: libera, profondamente colta, umana, radicata e al tempo stesso internazionale. Tra le sale di Villa Palagonia, sotto lo sguardo silenzioso dei Pupi e delle opere d’arte, si compie il miracolo dell’accoglienza vera: quella che non ha bisogno di stupire a tutti i costi, ma che sa come lasciare il segno, attraverso un piatto o una storia. E il servizio in sala, gestito dal sorriso gentile di Laura Codogno, se ne fa portavoce insieme ai giovani figli Turi ed Emma, nati e cresciuti sotto la stella del ristorante. La sensazione, uscendo, è quella di aver vissuto un’esperienza completa, non solo gastronomica, ma anche culturale e affettiva. Perché, come dice Lo Coco, “stare al ristorante significa stare bene, senza costrizioni”. E I Pupi oggi è tutto questo.

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