Un fine dining con obiettivi ambiziosi. Uno chef che elabora primizie e prodotti del territorio in forma nuova, senza rivisitare la tradizione. Mattia Trabetti punta in Alto e sorprende con una cucina fuori dagli schemi all’ Executive Spa Hotel di Fiorano Modenese.
Alto Ristorante- Executive Spa e Hotel di Fiorano Modenese
Il ristorante
“Il proprietario si arrabbia con il Rettore del Santuario perché non lo illumina. A volte lo chiama mentre sta cenando e gli chiede di accendere le luci”. Cenare allo chef’s table di un ristorante ha il vantaggio di abbattere - immediatamente o nel corso della serata - le barriere che naturalmente esistono tra la cucina e i clienti. Spiace per chi si occupa del servizio, ma la riduzione della distanza con la cucina, riduce anche le inibizioni e il tempo che deve maturare prima di ricevere confidenze.
Noi siamo “alla finestra” che si apre sulla cucina del ristorante Alto dell’Executive Spa Hotel di Fiorano Modenese. Un pass rialzato a cui si affaccia lo chef Mattia Trabetti per raccontare i suoi piatti e i loro retroscena. Poco dopo averci raccontato l’aneddoto del Santuario, arriva Marcello Masi, il proprietario dell’albergo. Si ferma a salutare lo chef e, come se ci conoscessimo da tempo, fa gli onori di casa anche con noi, intrattenendosi quel poco che basta a non guastare niente e a lasciarci un suo lucido e simpatico ricordo.
L’Executive esiste dagli anni Ottanta. Da un paio d’anni ha ricevuto una trasformazione radicale con il rifacimento della facciata e la realizzazione di un doppio rooftop che accoglie da un lato il ristorante Alto e dall’altro il cocktail bar Aria. La struttura ricorda una figura geometrica e si impone per la sua solidità. Nato per accogliere una clientela business, negli ultimi anni propone servizi che mirano ad avvicinare una clientela molto più variegata, sfruttando al massimo il livello strada e quello cielo.
Mattia Trabetti non ha dismesso le sue ali e continua a volare ben distante dalla tradizione emiliana. Quando due anni fa lo incontrammo al Craftsman di Reggio Emilia la linea editoriale era chiara. Materie prime, primizie e prodotti del territorio, mai cucinati secondo tradizione. Il ritornello non cambia nemmeno a Fiorano. In carta nessun piatto, neanche rivisitato, della tradizione emiliana. Se poi succede che al piano terra c’è il ristorante Exè, che lavora moltissimo sui local proponendo diversi piatti regionali, va da sé che ai piani alti il progetto finedining sia totalmente indipendente e con obiettivi ambiziosi.
I piatti
In cucina c’è tutto quello che serve a lavorazioni complesse ed espresse. Proprio davanti a noi un Josper a carbone, forno alimentato a brace che, se usato con maestria, produce risultati memorabili. Dopo il piccolo spazio pubblicità, la prova prodotto. Anguilla, Kimchi di friggitelli e rose non è stato il primo piatto del nostro menù (oggi non rispetteremo la cronologia della cena, nel rispetto di un racconto che decanta la cultura del cibo senza seguire il tradizionale flusso temporale della degustazione), sicuramente uno dei più riusciti e di quelli che vorresti tramandare, partendo dagli esseri umani a te più prossimi fino a quelli ancora sconosciuti.
Anguille non enormi, circa 500 gr, sono cotte intere sulla griglia del Josper a fuoco vivo, poi vengono spolpate e condite con scalogno bruciato. Sopra viene adagiato un friggitello fatto fermentare secondo la tecnica koreana del kimchi - di cui esistono centinaia di ricette diverse - la cui base, nella versione di Mattia Trabetti, è una salsa fermentata di gamberi, peperoncino e zenzero in cui viene immerso e abbandonato il friggitello per circa un mese. Il piatto viene ultimato adagiando il friggitello sull’anguilla e ultimando con olio alle rose e paprika affumicata. Questo piatto è una summa di grasso, dolce e acido in cui l’equilibrio alla fine non riesce solo a spuntarla, ma anche a trasformarsi in piatto trofeo, quello agognato, quello che, una volta mangiato, pensi che lo avresti potuto sognare.
Immaginatevi un profilo collinare, un saliscendi appenninico. I piatti stanno a valle, i meno degni di nota, o in cima, i più memorabili. Per i piatti di Mattia dovremmo immaginare una cresta, un profilo senza valli, dove tutti i piatti stanno in quota e tra questi qualcuno svetta. Il denominatore comune è senz’altro l’acidità, non frutto di un elemento acido in sé quanto del processo di fermentazione, in cui lo chef si applica da tempo e, secondo noi, con il freno a mano tirato, in una proporzione stilata in rapporto alla sua curiosità.
Sotto lo sguardo pudico, la voce sempre a basso volume e una barba da ragazzo di mondo che attutisce il suo spirito instancabile, c’è un motore che sbuffa, che scoppia, c’è una batteria - diremmo oggi - sempre sovraccarica. Fiorano è in mezzo al distretto della ceramica emiliana e confina con Maranello. Mattia è il fascino della fragilità che si mette a correre in pista. Qualche volta esce dai cordoli, solo qualche volta. Come quando serve un Cavolo Rapa e Miso di pane. Un drifting acido che se non lo riprendi con la nocciola croccante presente nel piatto, il palato rischia il sovrasterzo. Alla curva seguente arriva un Cuore di cavallo e Uva fragola, equipaggiato anche di aceto di uva fragola prodotto dallo chef: qui l’acidità ha il piacere di bilanciare il ferro ematico della parte animale.
La vertigine creativa arriva però con un piatto da contraddizione apparente. Leggi “cappelletti” e dici “Embè, tutte ste storie sul vade retro tradizione dell’Emilia-Romagna e poi cosa mi prepari..”. In Cappelletti, Nocciole nere e Bourbon, il segreto sta nel ripieno. Quando Mattia, in uno dei suoi vari esperimenti, si dedicava alla fermentazione della nocciola, è arrivato al punto di sviluppare un gusto che ricorda la dolcezza della vaniglia e l’acidità dei frutti di bosco. Da lì l’idea di racchiudere il tutto in una piccola scatolina di pasta fresca. Le nocciole nere sono raccolte acerbe dalla pianta, fatte ossidare nel loro guscio, poi aperte e sminuzzate al coltello. Con un poco di crema di formaggio, in modo che la nocciola rimanga “legata”, diventano il ripieno dei cappelletti. Vengono cotti e poi mantecati con burro al bourbon ottenuto con la tecnica del fatwash, tipica della mixologia. Si mescolano burro e bourbon e si lascia raffreddare. Gli elementi si separano: il bourbon prende la parte vellutata e grassa del burro, mentre quest’ultimo i sentori del bourbon. Per finire una nebulizzazione di bitter, creato dal barman del cocktail bar dell’hotel. Un piatto ingannevole, e dal morso inaspettato. La pasta c’è, eppure non il matrimonio con il dolce e sapido ripieno. Unione insolita, di divampante freschezza. Siamo di nuovo sul crinale, a guardare due cime gemelle che hanno in comune l’evocazione del sottosopra, del ribaltamento.
Come sarebbe un piatto povero piemontese nel multiverso? Un avatar avrebbe le fattezza di Batsoà di Storione e Piedini di Mora e Salsa Pop-Koji. Lo storione viene farcito con ragù di piedini di mora romagnola, poi fritto e condito con una salsa ottenuta da pop-corn e koji. Rispetto alla tradizione Mattia usa il pesce e non il piedino di vitello, ma rinforza con il ragù della suina razza nostrana, di cui si rifornisce presso un’azienda dei dintorni di Zocca. L’esperienza è come saltare sull’Orient Express, o farsi una vasca in Cina, addentando uno street food ecumenico, a forma di calzino risvoltato, mentre si cammina con la testa tra le nuvole.
Avete presente la celebre royale di lepre? Faro della cucina francese, cottura prolungata, morso scioglievolmente fragile? La versione di Alto rende alla masticazione un ruolo da protagonista sfruttando le proprietà da carne magra della lepre. L’animale viene spolpato a crudo e pulito da ogni nervo e fibra. Viene steso a libro e spalmato con grasso di manzo, lo stesso ricavato dai ciccioli che, all’inizio della cena, avevamo assaggiato come benvenuto e come simbolo di una cucina attenta a non scartare niente.
Sale, pepe e un trito di rosmarino e poi la chiusura a salsicciotto. La cottura in due fasi, prima a bassa temperatura per alcuni minuti, per sigillare la forma, poi nel josper a brace viva per arrostire, affumicare e ottenere una masticabilità più appagante rispetto a uno stracotto. La carne è abbinata alla scorzonera, radice dolce presente sia come crema che a tocchetti, a foglie di cicoria e galanga - dalla personalità simile allo zenzero - per convogliare in bocca anche una nota amaricante e fresca. Il fondo della lepre non poteva che chiudere il cerchio.
Anche se il Santuario non è illuminato, c’è la luce emessa dai piatti di Mattia. Fiammate di creatività e fonti di calore continuative. Le prime sono quelle che dapprima ti schiaffeggiano e poi ti accarezzano: nel nostro percorso incipit acido quasi accecante, in seguito si dimmerizza aprendoti gli occhi. Le seconde sono la ricerca e le preparazioni, la tenacia nordica che arriva dalla sua esperienza in Belgio e che si incastra con i migliori prodotti della zona. Per dire: il Raìsa è un formaggio che lo chef ci fa assaggiare a mo’ di saluto. Per noi è dinamite erbacea frutto del lavoro dell’azienda agricola Le Cornelle ,che alleva solo pecore di razza bianca cornella. Ce ne andiamo con il pensiero che anche quando lavori a testa bassa, puoi sempre tenere lo sguardo in alto.
Foto: Crediti Fabrizio Cicconi
Indirizzo
Alto Ristorante
Circondariale S. Francesco, 2, 41042 Fiorano modenese MO
Tel: 0536 175 3281
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