Se anche voi avete sempre avuto a noia il lusso in stile “finto antico”, sappiate che qui vi ritroverete a dormire negli ex alloggi delle consorelle, gustare la colazione nel refettorio e cenare nel chiostro di un maestoso convento progettato dal Borromini. La cena? Un'esperienza che reimpasta la dispensa regionale in forma attuale, grazie allo studio sui capisaldi campani dello chef Emidio Gennaro Ferro.
L'hotel
È proprio quando pensi di conoscere l'Urbe a menadito, che da una strada qualunque spunta fuori l'impensabile. Come un convento a un soffio dal viavai trasteverino, progettato nientemeno che dal Borromini nel 1642 e convertito in hotel di lusso sotto il segno di VRetreats. Non il solito palazzo svettante nel bel mezzo di una bolgia turistica, ma un discreto punto luce a rischiarare la romanità pittoresca del "rione da film".
Parliamo del Donna Camilla Savelli, fortezza con chiesetta adiacente tutt'ora visitabile, tirata su per volontà dell'ambiziosa Duchessa Camilla Virginia Savelli (moglie di Pier Francesco Farnese) con l'intento di ospitare le monache agostiniane in un placido rifugio avvolto dalla macchia soprastante del Gianicolo. Giacché ad entrarci oggi pare quasi un museo: ogni sala, nicchia o scultura traccia dal vivo la cronologia dei 400 anni passati, in una sorta di storyboard che mette a nudo le forme nascoste del corpo cittadino.
Se anche voi avete sempre avuto a noia le suite in stile finto antico, sappiate che qui vi ritroverete a dormire negli ex alloggi delle consorelle, dove travi a vista e mobilio d'epoca abbracciano doppi salottini e scorci sul parco geometrico del chiostro, assumendo d'un tratto sembianze sfarzose.
Una macchina del tempo pronta a investire pure il rito della colazione, complice il "back to '600" dei tavoli imbanditi nella Gran Sala Borromini. Si mangia infatti presso il vecchio refettorio, fra i pigmenti delle tele rinascimentali e la robustezza delle sedute in legno di noce. Cappuccio e brioche? No, grazie -o meglio, non solo. A totale contrasto col set antiquario, nei piatti finiscono quadrotti di pizza bianca e mortadella, maritozzi XL, ricottine laziali e cornetti salati all'italiana, mentre il turista strabuzza gli occhi e gli autoctoni trovano facile rimedio alle solite proposte intercontinentali.
Per smaltire l'overdose di sali e zuccheri, poi, c'è sempre il trekking di scalini fino alla terrazza che disegna dall'alto la planimetria dell'edificio barocco: un locus amoenus sferzato dalla "giannetta" serale e popolato dai cultori della stuzzicheria espressa.
Il ristorante
A proposito di cena, sarà molto lontana dalla sfilza di carbocreme e filetti di baccalà oltrecottura che imperversano pochi vicoli più avanti: nel Ristorante Ferro e Fuoco sei a Trastevere senza sentirti a Trastevere. Un'insegna insolita, quella guidata dallo chef campano Emidio Gennaro Ferro, che punta consapevolmente il mirino sulla clientela bramosa di novità, reimpastando la dispensa regionale in forma attuale. Ne deriva un gioco a incastro fra la veracità delle icone partenopee e i piatti forti di Mamma Roma, a strutturare i singoli assaggi come altrettanti puzzle di memorie ricomposte.
Il vantaggio delle notti tardo-estive è quello di poter cenare in giardino, con un grandangolo completo del convento che fu, mentre il cambio di stagione vede gli ospiti riunirsi in una sala raccolta dal design curiosamente minimalista. Quale che sia il set, la squadra si muove sciolta accorciando le distanze brigata-commensali, forte di un giovane equipaggio che seleziona le etichette giuste da una cantina in ampliamento.
Spoiler per gli affezionati dei lievitati: la degustazione muove i primi passi sul sentiero già battuto della montanara, che però la cucina calca a suo stile, spingendo la doratura quel tanto da creare un vivido contrasto con la mollica solubile. Sopra, un'ombra di pomodoro e basilico fresco; elogio all'informalità che ci riporta con i piedi per terra, chiamando all'appello l'infanzia campestre di Ferro: vissuto in una famiglia di imprenditori agricoli, ora predica in toto la sacralità del prodotto, girando a largo da facili combo leziose (non a caso, la ricetta attinge dalla sapienza domestica della nonna, avvezza a preparar merende con gli avanzi di impasti farciti e fritti).
Il tasting menu
A rafforzare il concetto, sulla giostra dei finger salgono veloci un'Idea di Caprese -la buccia del pomodoro a mo' di involucro, che in bocca schiude una sorpresa inaspettata di mozzarella- e il baccalà in salsa mediterranea, rifinito da polvere di olive e cialdina friabile al nero di seppia. Giusto il tempo di addentare il pane di Renella (noto forno col record di anzianità nel quartiere, risalente al 1870) ed ecco arrivare l'olio "maison" Ferro, proveniente dall'azienda dello chef in Campania. Sulla stessa scia informale, la portata introduttiva pesca dritta dal cortile, in un ritratto stilizzato di campagna: così, l'umile uovo poché diventa "re" grazie a una stola di Provolone del Monaco DOP della penisola sorrentina e all'occhiello di carciofi di Paestum dalle foglie crispy. Una piccola colata lavica da tamponare a colpi di scarpetta, col tuorlo cotto sottovuoto che esonda lento, ringalluzzito dagli accenni di curcuma nel topping.
Skippa il classico indice di primi capitolini il Fusillo di Felitto con Colatura di Alici di Cetara, Bufala e Nocciole di Giffoni IGP. A dispetto del nome, trattasi di un maccherone lungo nato nell'omonimo borgo di appena 1000 residenti, con un'abile lavorazione volta a plasmare manualmente il formato tenace. Quindi, crema in superficie per mitigare la callosità della pasta e uno spruzzo salino che a sua volta bilancia il jump di grassezza del latticino. Il sud avvinghiato ai rebbi della forchetta, dalla spiaggia al caseificio, fino alle botteghe dei centri medievali salernitani. Smonta e rimonta la nozione di "saltimbocca" il secondo più centrato del menu, composto da filetto di vitello ripieno -alto e spesso per un affondo di tenerezza extra- insieme a quenelle di gnocco di semolino, indivia e riduzione di Malvasia Puntinata. Oltre i cliché, una proiezione sul piatto dell'areale laziale, con l'ombra fumosa della verdura scottata che s'accorda con la crosticina della carne leggermente caramellata.
Meno incisivo il Calamaro salsiccia e friarielli, crema di carote allo zenzero, tarallo napoletano e polvere di pomodoro, laddove l'intensità degli elementi "terrestri" lascia poco margine d'azione al pesce. Lo sprint finale lo compie il Croccante di Ricotta e Pera con Limoncello di Limoni Amalfitani, preciso nel suo slancio fruttato che ingloba dessert e digestivo. La pimpante fragranza costiera precede il cucchiaio, il citrico sgrassa l'opulenza della ricotta dei Monti Lattari. Chi l'avrebbe mai detto, che a Trastevere potesse tener banco un menu campano.
Via Garibaldi, 27, 00153 Roma RM
Telefono: 06 588861