Mixology

Whisky mania: il mercato italiano in continua crescita e gli abbinamenti con le pietanze al posto del vino

di:
Massimiliano Bianconcini
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whisky rivoluzione italiana

La Notizia

La si potrebbe definire una rivoluzione dei costumi, certo è che in Italia la whisky economy ha ripreso a galoppare a briglie sciolte, merito di alcuni festival dedicati a questo distillato intenso e alle volte spigoloso, che può sembrare ostico a chi si avvicina per la prima volta, ma che dà soddisfazioni sopraffine quando si è entrati in confidenza con il suo carattere forte. Sulla spinta della Cocktail Renaissance, potremo dire che è in atto anche una whisky revolution, di cui le grandi aziende multinazionali - che spesso posseggono alcune delle più prestigiose distillerie - si sono accorte. Certo il mondo del whisky ha sempre avuto una tenuta. Uno zoccolo duro di addetti ai lavori e di appassionati che, lontano dai riflettori, anche nei momenti in cui le mode spingevano verso altri spirits, ha sempre apprezzato questo liquore dorato, frutto di una raffinata distillazione dell’orzo maltato, del mais (se un bourbon) o della segale (se un rye), cui bisogna aggiungere acqua, lieviti, legno e tempo.


Oggi le cose sono cambiate. A Milano e a Roma si celebrano annualmente dei festival che richiamano migliaia di persone. Una città importante come Firenze per prima ha introdotto la Cocktail Week, seguita da altre come Milano, Torino, Venezia, dove al centro c’è il cocktail e spesso il whisky è uno dei suoi ingredienti essenziali. Il recente Roma Bar Show ha attirato appassionati e addetti ai lavori dall’estero e ha oltremodo avvicinato molti neofiti al mondo del whisky. Varie manifestazioni in giro per l’Italia ne spingono i consumi e soprattutto ne fanno conoscere i vari prodotti in commercio. Penso ad un evento unico nel suo genere come quello, di nicchia, dedicato ai whisky torbati, dal nome evocativo: “A tutta torba”, che va a prendere in considerazione il 7% della produzione mondiale, geolocalizzata soprattutto nel nord della Scozia, benché la torba si trovi anche in altre parti del mondo, per presentare al pubblico un ventaglio di distillerie storiche, alcune entrate anche nell’immaginario letterario.


Tutto questo si traduce in un flusso di visitatori costante che spesso sorprende ad una prima e grezza indagine sociologica. Non è raro vedere in queste manifestazioni tanti giovani nei loro twenties come si direbbe nel Regno Unito, passeggiare tra i banchi di assaggio e informarsi intorno ai vari prodotti. E quando dico giovani non intendo giovani maschi, ma giovani in senso lato. Inoltre, è possibile vedere intere famiglie con bambini al seguito recarsi a degustare whisky provenienti dai quattro angoli della terra. Così come non è affatto raro imbattersi anche in donne curiose e affascinate che si aggirano tra i banchi di assaggio per fare nuove esperienze sensoriali. Del resto, è sempre più facile vedere barladies di livello diventare brand ambassador e raccontare con ricchezza di particolari la storia di alcuni dei migliori whisky in commercio; un tempo argomento di interesse per barbuti uomini d’affari o di spensierati giramondo.


«Il calo di interesse nei confronti del whisky era iniziato nel 1983, il suo annus terribilis, e per buoni 25 anni poco o niente si era mosso intorno a questa filiera produttiva. La “Whisky Revolution” è iniziata in Italia intorno al 2010, mentre nel mondo anglosassone qualche anno prima. Oggi è tornato di grande moda, in crescita per fatturati, per numero di appassionati e per qualità dei prodotti», dice Pino Perrone, operatore del settore e tra gli organizzatori del Roma Whisky Festival, la cui IX edizione si terrà il 14 e il 15 marzo. Certo è un mondo complesso, che va affrontato a piccole dosi - e non è una metafora. Ma soprattutto va raccontato nei dovuti modi. È quello che fanno i molti corsi, le serate a tema, gli incontri, le degustazioni guidate - altro importante capitolo della whisky economy - che consentono di comprendere quanto lavoro c’è alle spalle di un prodotto, come se ne possono apprezzare le sfumature e quanto capitale rimane fermo per anni, per produrre alla fine un prodotto di qualità.


La rivoluzione culturale in atto intorno al mondo del food non può prescindere dal movimento economico che ruota intorno all’universo whisky, che ha introdotto anche in Italia l’idea che si può cenare a base di distillati di malto, mais o segale maltati - magari abbinati a piatti gourmet -, dimostrando così di essere una valida e piacevole alternativa al vino. È quanto accaduto alla serata evento per i 10 anni del "Big Peat", un blend di soli single malt, organizzata da Arnaldo Maggiora Vergano e Lorenzo Giovannetti di Non solo Whisky, ideatori del format “L’inverno del vizio”, presentato al ristorante gourmet Jacopa di Roma. In pratica una verticale con whisky prodotti da Douglas Laing, selezionatore indipendente, diventato un brand internazionale, scelti da Gabriele Rondani di Rinaldi 1957, che è l’importatore ufficiale in Italia. In questo caso, gli chef Jacopo Ricci e Piero Drago sono partiti dalla tipologia di whisky per decidere quale piatto abbinare, in modo da trovare il giusto bilanciamento. Questo perché la forte gradazione alcolica, gli odori netti e il sapore speziato, ma allo stesso tempo vanigliato, che provengono dall’invecchiamento in legno, uniti ai sentori di torba più o meno decisi, quando presenti nel liquore, devono essere ben calibrati, se si vuole mantenere in bocca la giusta armonia con il cibo.



Si è partiti con una coda di manzo, sedano e cioccolato fondente, una reinterpretazione della coda alla vaccinara che nel dopoguerra, la cui ricetta contemplava o abbondante sedano nel corso della cottura o del cioccolato per correggere l’acidità della coda, qualora non fosse di primissima scelta. Qui si è decido di abbinare lo Scallywag, prodotto che ha vinto per due volte la medaglia d’oro alla Spirits Competition di San Francisco, un blend delle maggiori distillerie dello Spyside, invecchiato in botti di sherry che offre note dolci e vanigliate in bocca. Il piatto successivo, la Fregula, burro, aringa affumicata e finocchietto, ha richiesto invece in abbinamento il Rock Island, un whisky delle Isole Orcadi, dai sentori lievemente affumicati per l’uso della torba e una persistente salinità, data dal vento salmastro delle isole a nord della Scozia. Il Filetto di baccalà e puntarelle, presentato quale secondo piatto di chiara ascendenza regionale, ha ben sopportato il Timorous Beastie, un whisky delicato con sentori floreali e vanigliati, proveniente dalle Highlands, invecchiato 8 anni e con un gradiente alcolico di 46.8%.



Il finale dolce della Tartelletta ricotta e pere è stato accompagnato dall’Epicurean, il cui nome già di per sé evoca le delizie edonistiche del liquido al contatto delle papille gustative. Si tratta dell’ultimo nato in casa Laing, un prodotto delle Lowland dolce, morbido, fruttato e delicato. La serata si è chiusa in bellezza con il Big Peat, un blended di torbati, che utilizza esclusivamente whisky dell'isola di Islay e nella cui composizione si trovano alcuni tra i più famosi single malt della Ardbeg, Caol Ila, Bowmore e della Port Ellen (la distilleria chiusa nel 1983). Il Big Peat è un whisky small batch, cioè creato in piccoli lotti (circa 5.000 bottiglie) non filtrato a freddo, per evitare di perdere i preziosi sentori accumulati nel tempo, e senza coloranti. Gli abbinamenti presentati sono solo dei suggerimenti tra i tanti possibili e poco importa che a decidere i piatti sia stato uno chef professionista. Vanno presi come coordinate generali. Conoscendo il carattere dei whisky, ognuno può giocare e trovare gli accostamenti che più desidera e ama.

Wine Reporter

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