Fra i cuochi più influenti di sempre, Michel Bras si guarda bene dal polemizzare, mentre illustra un paradigma di cucina che collide con tic e tendenze odierne, agli antipodi del fun dining, dell’opera d’arte totale, dell’accelerazione creativa, del tecnicismo esasperato.
L'intervista
Silenzio, parla Bras. Forse non c’è cuoco al mondo, che oggi goda dell’autorevolezza quasi reverenziale dello chef di Laguiole, che Bob Noto considerava il vero vincitore e il cuoco più influente della cucina contemporanea, ben più dell’amico Ferran Adrià. Senza il suo naturalismo poetico e la sua esplorazione del vegetale, svolta da autodidatta totale, forse la cucina avrebbe percorso altre strade. Basti pensare che era il 1978 quando creò il primo menu vegetariano della storia, introducendo concetti dirompenti, oggi universali. “Ma non mi sento in alcun modo un fondatore”, si schermisce rispondendo ai complimenti.Oggi che il ristorante è gestito nella sua quotidianità dal figlio Sébastien, il suo sguardo sembra essersi fatto ancora più profondo. “Non sono un cuoco nel senso letterale della parola”, premette, raccontando di essersi messo ai fornelli a 18 anni, un po’ per caso, un po’ per necessità, visto che la madre era indisposta e bisognava dare una mano. Ma nei suoi piani c’erano studi scientifici. Poi la conversione, quando capì che la ristorazione poteva essere un mezzo per condividere sentimenti con chi amava e con il mondo in generale. “È lo strumento che ho trovato per esprimere la mia relazione con la natura. Voglio essere un vettore di felicità e la cucina mi consente di mettere il cuore sul piatto. Nel cammino mi sono liberato da tutto ciò che la irrigidiva, dai codici relativi al prodotto o al servizio di sala".
"Per me il modo in cui un cuoco si esprime deve coincidere con la sua anima, questo è ciò che dovrebbe trovare l’ospite nel piatto e nel luogo in cui ha scelto di operare. Mi sento abbastanza lontano dalla cucina di immagine e di spettacolo”, prosegue, senza fare nomi, ma riferendosi probabilmente al fun dining stile Albert Adrià o all’opera d’arte totale di Rasmus Munk. “Il cibo deve essere amore, amore condiviso. Il problema oggigiorno sono queste cucine che privilegiano l’immagine sull’emozione. A me interessano tutti i cuochi e tutte le cuoche, purché la loro cucina rappresenti l’espressione della loro persona, nel piatto mettano chi sono e come sono”.
Lo stesso timing è ben diverso da quello di media e congressi per questo genio schivo.“Mi ci sono voluti 35 anni per portare a termine il gargouillou”, racconta del suo capolavoro. “È il piatto della maturità di un cuoco che domina gli elementi e la tecnica. Io ho corso maratone per mezzo secolo. Nel mentre avvertivo i sentimenti a fior di pelle. Brividi che poi volevo tradurre in cucina. Il gargouillou è il ritratto di quei fiori, di quelle erbe, dei paesaggi che attraversavo. Non è un piatto che si sia materializzato in un giorno preciso, piuttosto ha toccato il suo apice nel giro di 30-35 anni, con basi tecniche già ben dominate”.
Altro signature perenne di Bras è il celeberrimo coulant au chocolat (trovate qui la ricetta originale). “Ammetto una fascinazione per il cioccolato come motore del piatto. Se devo fissare la sua nascita, ricordo un giorno al ritorno dallo sci con mia moglie e i miei due figli. Era freddissimo, la neve si innalzava davanti a noi come una parete e ci sentivamo gelare. Mia moglie preparò la solita cioccolata e i miei figli per scaldarsi misero le mani sulle tazze, poi le leccarono. Ho voluto replicare l’idea di un cioccolato che satura l’atmosfera quando apri il pacchetto. Mi ci sono voluti due anni, ma mi sono sentito soddisfatto per essere riuscito a tradurre tecnicamente un momento di forte emozione. Morale: la tecnica deve essere al servizio della cucina, mai il contrario”.
Fonte: Siete Canibales
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Foto: Crediti Maison Bras