Lo stress accompagna da sempre gli chef: a dispetto dei sensibili progressi compiuti nelle condizioni di lavoro, si acuisce sempre più a causa delle sfide imprenditoriali della contemporaneità. Il pluristellato Jason Atherton ne sa qualcosa.
La storia
La cucina tiene banco, nel bene e nel male. Al pari delle meraviglie, anche le magagne, come lo stress sul lavoro, diventano trending topic per l’industria della comunicazione, che ne ricava film e perfino serie TV (The Bear su FX). Certo i numeri sono impietosi: secondo una ricerca commissionata da Nestlè nel 2019, l’81% degli chef nel corso della sua carriera avrebbe sofferto a livello mentale, principalmente per carenza di personale, tempo o fondi; ben la metà, inoltre, reputerebbe il supporto nei luoghi di lavoro del tutto inadeguato. Tanto che questi problemi di stress, depressione o ansia raramente verrebbero comunicati. Non resterebbe che ricorrere privatamente ad antidolorifici, eccitanti o alcolici.Ne sa qualcosa Jason Atherton, già chef executive di Gordon Ramsay, pluristellato nelle sue varie location, da Londra e New York, fino a Dubai e alle Filippine (senza parlare dell'avveniristico ristorante nel deserto inaugurato un anno fa), il quale dichiara di soffrire da tempo di frequenti attacchi d’ansia. “In un certo senso oggi c’è più stress su chef come me, visti i problemi della mancanza di manodopera, dell’inflazione galoppante, dei prezzi delle materie prime, dei clienti che non vogliono pagare di più – e li capisco. Oltre l’ambiente di lavoro, ci sono le sfide mentali per affrontare quello che sta succedendo da una decade”.
Si aggiungono a un disturbo ossessivo compulsivo latente, lo stesso che anima il perfezionismo dei migliori professionisti. Anche se l’obiettivo resta sempre un miraggio, dal momento che ogni pezzo di pesce o di carne è diverso, quindi la ricetta andrebbe ricalibrata, e comunque troppe pedine si muovono continuamente su uno scacchiere, che resta impossibile padroneggiare.
Un’ossessione funzionale al successo, non per questo meno perniciosa. Dalla consapevolezza è nato anche un progetto ad hoc, The Burnt Chef, volto ad affrontare queste problematiche nella ristorazione, da sempre propensa allo stigma. Fornisce ai ristoratori una guida in materia, contenente consigli e raccomandazioni per una gestione ottimale.
Non che manchi qualche progresso, per esempio sul fronte degli orari di lavoro, che si sono sensibilmente ridotti. Se prima, racconta Atherton, era scontato prestare servizio 18 ore al giorno, sei giorni su sette per i più fortunati, nella giostra infernale di pranzi e cene che si rincorrevano, oggi la consapevolezza sul necessario bilanciamento vita/lavoro è diffusa. Il risultato non cambia: in UK il 70% dei ristoranti sono a corto di personale, mentre un terzo delle brigate sta cercando un altro lavoro. “Ne deriva che l’idea di mangiare da uno stellato a 40 sterline non può più esistere”, i costi supplementari del settore, ahimè, non possono che scaricarsi sul conto.
Fonte: Inside Hook
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