Partito l’ottimo Simone Cipriani, avanguardista irriducibile, il Santo Graal di Firenze cambia formula: dentro il suo concavo in mattoni vivi si rimescola la quintessenza del territorio, reinterpretato da Gabriele Andreoni.
La Storia
La Storia di Gabriele Andreoni
Diladdarno: da sempre la sponda gourmet di Firenze, con l’eccezione (capace di far regola) dell’Enoteca Pinchiorri. Ed è un piacere fendere le orde di turisti in cerca di una fiorentina à tort e à travers, infilarsi fra gli sfavillii di Ponte Vecchio, passare la mole tetragona di Palazzo Pitti e sprofondare nella torta di una città quotidiana. In mezzo alle case e alle botteghe fra cui, quasi subito, pende l’insegna un po’ anonima del Santo Graal.
Ha fatto molto parlare di sé questo ristorante umbratile e raccolto, da quando nel 2012 il patron Emanuele Canonico vi ha stappato il suo primo Champagne. Ricavato negli spazi di una bottega di oggetti in ferro battuto, con la superficie scabrosa dei mattoni nudi grattata dalle luminarie, che corrono lungo le due salette fino al privè sul fondo, ha fatto da scrigno per quasi 4 anni alla cucina irriverente di Simone Cipriani, giovanissimo sperimentatore di tutto quanto è avanguardia. Fino al gennaio di quest’anno, quando a succedergli è stato Gabriele Andreoni. Chiamato a ricucire con un concept chiamato “territorio”, ma senza tentazioni regressive.
Proprio a Firenze, infatti, è nato il giovane chef, la cui formazione atipica è stata mossa da una vocazione tardiva. Niente Alberghiero, ma il liceo scientifico e qualche morso di università, prima di metter piede in una sala ristorante, come tanti coetanei. “È stato uno chef molto bravo, a chiedermi se volevo imparare qualcosa. E mi è piaciuto. Ho proseguito frequentando un corso di formazione professionale e poi l’ALMA, che è una grande scuola, da tutti i punti di vista. Così sono arrivato in stage da Perbellini, a Isola Rizza. Un maestro cui devo tanto, soprattutto per le basi classiche; mi ha chiesto di restare ma io volevo vedere anche altro. Dopo una sostituzione da Trussardi, ai tempi di Berton, ho affiancato Mauro Colagreco a Menton, come chef de partie prima agli antipasti, poi al pesce. Che in Costa Azzurra è il massimo. E qui ho trovato una ricerca gustativa entusiasmante, anche grazie all’approfondimento sui vegetali”.
Sempre per il tramite di Perbellini si schiudono le porte della Pergola di Heinz Beck, un salto in alto per le dimensioni della brigata e per il modo di lavorare: law & order, nel senso delle tecniche, dai tagli alle cotture, e dell’organizzazione. Mentre alle carni pensa Fabio Barbaglini presso il Mont Blanc di La Salle e all’avanguardia Paolo Lopriore alla Certosa di Maggiano. Il ritorno a casa, propheta in patria, è datato 2012: prima all’inaugurazione del Palagio 59 di Peter Brunel, poi quale sous-chef di Villa Cora, relais sui colli di Firenze, e chef del Fico di San Martino alla Palma.
“Esperienze che mi sono state indispensabili per ritrovare un sentimento di casa e il bandolo delle materie prime toscane. Cerco di selezionarle in prima persona da piccoli produttori, dove posso toccare con mano e guardare negli occhi gli animali. La prossimità è la regola, privilegiando il biologico per quanto riguarda le verdure e le carni, provenienti dagli allevamenti circostanti”. Sono protagoniste di due menu: il Percorso vegetariano, con 4 portate a 35 euro, e La via dello chef, che ne inanella 6 a 50. A lavorarci con Gabriele è il secondo Gianluca Somigli, trentenne innamorato della cucina francese, appresa per 2 anni da uno stellato in loco, che parteciperà a Emergente di Luigi Cremona.
La scelta è stata quella di partire dalla virtù cardinale della prudenza. Quindi una cucina con il freno un po’ tirato, sempre pulita e corretta, che privilegia le cotture della tradizione italiana e le applica a pochi ingredienti per piatto, ben delineati nelle loro interazioni gustative e facilmente leggibili da tutti. Ma qua e là si intuiscono il desiderio e la capacità di andare oltre, senza forzature.
I Piatti
Si comincia con una nostalgia di Francia: la terrina di maiale, proposta secondo stagione con i semi di zucca all’interno, per il crunch, la gelatina di mele al rosmarino, la zucca in agrodolce e in spuma, i suoi semi anche in polvere quale omaggio a Lopriore. “Un piatto che fa parte delle nostre tradizioni, seppur dimenticate. È nato per recuperare le parti del maiale che restavano inutilizzate ed è preparato classicamente, con un po’ di fondo di maiale per legare e un passaggio sotto pressione, senza sottovuoto”.
La trippa di baccalà tenta la mossa del cavallo: è quella tipica delle tradizioni basche, tutta collagene e gelatina, ma viene preparata alla maniera delle trattorie cittadine, con una base di soffritto, il pomodoro e il peperoncino, inguainato nella sensazione di pseudograssezza, senza Parmigiano. In alternativa l’uovo poché con frolla di Parmigiano, spuma di patate, sesamo nero tostato e timo, preparato con uova bio di galline livornesi, particolarmente versatili. Forse l’antipasto meno incisivo.
Ottimi i primi, semplici e ficcanti. I maccheroncini con acciughe, pane tostato, burro e maggiorana, che scolpiscono una ricetta italiana. Perché le acciughe sono indecise se tuffarsi nel sale o nell’olio, dibattersi vive o liquefarsi nel condimento: dopo 40 minuti di oro bianco, sgusciano nell’extravergine insaporito con salvia, rosmarino e aglio. Cosicché risultano al tempo stesso carnose ed evolute, con un manto argentato perfettamente integro. La loro sapidità entra in sinergia con l’amaro del pane molto tostato, più un burro insaporito con le stesse acciughe e la maggiorana. Cartesiano.
Oppure i tortelli di cipollotto con acqua di mozzarella e salvia, che disegnano una sineddoche italiana, elevando a soggetto quanto solitamente è pronome. La consistenza è piacevolmente callosa, grazie all’abbondanza di tuorli e alla semola. Sul fondo del piatto c’è l’acqua di mozzarella di bufala di Firenze, ottenuta per via di semi-fonduta, fino a leggera densità e concentrazione del sentore muschiato. Entra in dialettica con la salvia dell’aria alla lecitina, altrettanto muschiata, ricreando una sensazione di burro e salvia vivificata dalla leggera acidità del latticino.
Fra i secondi una portata vegana, la cecina con maionese di ceci frullati e montati all’extravergine, verdure cotte, crude e mosto cotto, territoriale al 100%; oppure il maialino cotto sottovuoto e poi sulla pelle, servito con cipolline glassate, puntarelle e un fondo acidulato all’aceto di mele, ben equilibrato fra grassezza, amaro e acidità.
La torta di mele con crema leggera al blu disegna un bel trait d’union fra nostalgie caserecce di credenza e formaggi a fine pasto. Con l’alternativa del budino al cioccolato fondente, cotto al vapore, pastoso e amaro, accompagnato dal sorbetto al mandarino per l’acidità e dalla salsa mou per la rotondità che smussa.
Per accompagnare la cucina, nelle vetrinette a temperatura controllata riposano 170 etichette. Una selezione non enciclopedica, ma ragionata, che dalla Toscana, ben rappresentata in tutte le sue denominazioni, si allarga verso nord e verso sud, fino a Francia, Austria, Germania. A curarla insieme a Canonico sono i sommelier Neri Avuri e Giacomo Pettineo.
Tutte le fotografie sono di Lido Vanucchi
Indirizzo
Ristorante Il Santo GraalVia Romana 70r - 50125 Firenze
Tel. +39 055 2286533
Mail: info@ristorantesantograal.it
Il sito web del ristorante Il Santo Graal