Benvenuti a casa Perbellini, la grande cucina nell’era del concept

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Dimenticate le attese

sussiegose dei camerieri dietro l’angolo, l’illuminazione soffusa che permea l’ovatta nell’aria, i tavoli come pianeti distanti, ciascuno nella propria orbita indifferente. Giancarlo Perbellini ha appeso al chiodo l’aura crepuscolare dell’haute cuisine, sullo stesso appendiabiti della toque e della divisa immacolata; a fianco degli indumenti da pinguino del personale di sala. Fuori dalla soglia di Casa Perbellini, il locale inaugurato il 16 dicembre 2014 dove ha traslocato il suo talento e i suoi piatti migliori.

La voglia di Verona in realtà era nell’aria: “Da 3 anni coltivavamo questo progetto, senza risolverci a compiere il passo definitivo. Dopo aver visitato diverse location siamo arrivati qui in Piazza San Zeno. Avevo grossi dubbi sugli spazi; l’architetta però ha buttato giù uno schizzo e mi ha convinto. Abbiamo unito il vecchio negozio di un fotografo e un bar storico, il Mascaron, punto di ritrovo dei veronesi. Partendo da questo concetto di casa, perché mi ero un po’ stancato di vedere cattedrali, compreso il mio ristorante un po’ rococò. Anche la cucina doveva sembrare domestica: ho pensato prima a Boffi, poi a De Manincor. L’ho vista sul catalogo e mi ha folgorato: in otto giorni era mia. Tutta induzione (all’inizio anche gas, che poi ho tolto), una plancha classica, due forni a convezione e le tecnologie indispensabili. Sebbene io non ami le basse temperature, con l’eccezione dei banchetti”.

La quarta parete della cucina è abbattuta: si può interloquire direttamente con i cuochi, alzare la mano e domandare. “Un’arma a doppio taglio, che limita la fruibilità degli spazi; ma io ci avevo fatto l’abitudine nel mio locale di Hong Kong. Durante il servizio prendo le comande, spadello, finisco qualche piatto. Do una mano generalmente alle paste, quando gli antipasti sono usciti. Col mio secondo Giacomo Sacchetto, che è stato per 4 anni a Isola Rizza, e prima sous-chef al Rosa Alpina, c’è una forte intesa; ma tutta la squadra è rodata perché è rimasta praticamente invariata. Ci basta uno sguardo per capirci”.

Il risultato è che lo stesso menu un tempo servito in 2 ore qui prende appena 1 ora e 20, perché al cuoco basta guardare il tavolo per vedere se il piatto è vuoto, la sala e la cucina si osservano e gli spazi sono brevi. Da 1500 metri quadrati a 150 è stata una bella dieta (ma in estate c’è anche il plateatico esterno, che non gonfia i 24 coperti); la stessa scelta si è ristretta, attestandosi sui 30 piatti, a loro volta un po’ meno complessi che in passato. “Non è facile neppure provare le ricette o riprogettare la carta. Ed è qui che interviene una certa sinergia con gli altri locali veronesi: la Dolce Locanda per i dolci come la Locanda Quattro Cuochi per la logistica”.

“La mia finalità è quella di reinterpretare la cucina italiana”, dice lo chef. “In giro vedo germogli e licheni, non riletture di un raviolo. Invece pasta e risotto sono la nostra identità, già dal San Domenico”. Te ne consideri un discepolo?

  

“Assolutamente sì: entrare lì dentro è stata la svolta. Nato a Bovolone, nella ‘bassa’ veneta, arrivavo da un altro due stelle, i Dodici Apostoli a Verona, quindi un’istituzione. Ma lì eravamo in 3 in cucina. Trovare una brigata di 14-15 elementi che facevano il pane due volte al giorno, mantecavano il gelato quotidianamente, mi ha fatto entrare in confusione. Ho capito che cos’era la gastronomia e il salto in Francia è stato naturale. Un amico pasticciere, Pascal Piermattei, mi ha portato con sé”. Ti senti ancora nel solco francese? “No, perché una cosa è la formazione, un’altra la cucina. Ho iniziato a capire cosa volevo fare dopo i 30 anni. E io voglio fare l’artigiano, il cuoco. È già sbagliato avere una filosofia di cucina: basta interpretare il prodotto”.

Stagionalità, allora. Freschezza e mercato. E qui il gotha di Perbellini si popola di altre presenze ingombranti. “Non avendo celle siamo obbligati a forniture quotidiane. Come all’Ambroisie, dove ho lavorato con Bernard Pacaud, che però può appoggiarsi su un mercato un po’ diverso. Perché Rungis non è Verona”. E il nome non meno pesante di Angelo Paracucchi, conosciuto per la mediazione di Alberico Penati: “Il più grande interprete della cucina italiana, pioniere del mercato e talent scout di prodotti eccellenti. Dimenticato da tutti”.

Quella di Casa Perbellini è quindi una cucina cucinata e non preparata, praticamente priva di antipasti freddi. Dove il pesce viene abbattuto solo per le preparazioni a crudo, anche per ragioni di spazio. Borghese nell’accezione di Nino Bergese, chiamato da Gianluigi Morini a divulgare quanto praticato per decenni al servizio di casate nobiliari e imprenditori rampanti. Eppure in blue jeans e scarpe da ginnastica, come nelle case di oggi, come vuole la divisa dei camerieri in sala. Secondo quella tendenza della classicità all’ibridazione, con l’italianità e la sensibilità contemporanea, che per Salvatore Settis ne costituisce una caratteristica precipua. Non meno dell’armonia, della nobiltà e dei topos ricorrenti, che pure qui non mancano di certo, tanto da configurare uno stile multiclassico e dinamico. Lo stile Perbellini.

Il diploma in concept, staccato negli altri locali veronesi, detta anche la carta. Che lascia scegliere fra il menu Assaggi (inaugurato e chiuso da due signature dish di Isola Rizza, il Wafer al sesamo, tartara di branzino, caprino all’erba cipollina, sensazione di liquirizia e il Guanciale di vitello su purè di patate e porri fritti; nel mezzo 5 portate gourmet di nuovo conio) e Chi sceglie… prova!, degustazione a sorpresa imbastito su due prodotti pescati dall’ospite in una rosa di cinque, più assaggi vari. A mezzogiorno anche il lunch e in prospettiva il Veloce pensato per gli spettatori dell’Arena, da consumare entro un orario prefissato. Tutti soggetti a cambiamento mensile.

Nel primo caso agli appetizer (la sfera di cioccolato bianco allo Spritz, la tartelletta con tapioca e tartara di rana pescatrice, il dado di pancia di maiale croccante con caramello in agrodolce) segue la deliziosa quenelle di gelato di zabaione al caviale affumicato, variazione

 

del caviale con l’uovo degli zar. Dove il gelato mantiene la temperatura come il ghiaccio di prammatica, il tuorlo sposa l’ossidazione, il ricordo delle botti del Marsala la nota fumé, chiamata a prolungare e legare gli ingredienti con le sue volute capricciose. Al tempo stesso l’epitome dello stile Perbellini, a cavallo fra dolce e salato, cucina e pasticceria (date le origini famigliari, che si proiettano nella precisione, piacevolezza e complessità strutturale dei piatti, con la frequente destrutturazione dell’ingrediente mediante il sifone).

Poi, come accennato, il Wafer, imperfettibile e intramontabile. “Una ricetta di 12 anni fa, di quelle che ti riescono una o due volte nella vita, per una botta di fortuna, dato il numero di ingredienti in equilibrio”. Ancora un ricordo di pasticceria, come voleva l’avanguardia e prima ancora la nouvelle cuisine. Accordo di note elegantemente in sordina: l’ittico spinto dall’acidità del formaggio, il sulfureo dell’erba, la dolcezza amarotica della liquirizia che bagna il cucchiaio, dosando l’intensità con la sua consistenza vischiosa.

Il trancio di baccalà con crema di topinambur e maionese all’aglio, spinto dall’acidità della salsa e degli scalogni all’aceto sul fondo, viene sì cotto a bassa temperatura per 15 minuti, tanto da restare ancora traslucido, ma durante il servizio e non prima (come pure certe carni, per compattare le proteine o fare penetrare gli aromi). Più un tocco di menta per spingere il topinambur, comunque affine al carciofo.

 

Mentre l’uovo strapazzato con crema di patate all’aceto, mandarino, chips e spinaci appena saltati sembra anticipare quanto cova in cucina: la trasfigurazione di un piatto di casa, irriconoscibile nella sua rarefazione gustativa. Dove le consuete note acidule e dolci sono riequilibrate magistralmente dalla ferrosità vegetale.

Cucina italiana però significa innanzitutto primi piatti. In questo caso il risotto alla Parmigiana con bottarga, riduzione di sottobosco e saba. Indeciso fra la pianura padana e il sole. O forse fra Oriente e Occidente: “Mi chiedono se uso il katsuobushi, invece è la nostra bottarga, leggermente affumicata. E l’estratto di champignon porta una sensazione di umami. Perché non c’è bisogno di imitare il Giappone: basta guardare con il loro sguardo l’Italia”.

Il filo affumicato torna nella quaglia con pomodori confit, pistacchi e carciofi, dove la carne è cotta sottovuoto a bassa temperatura e poi rosolata alla plancha, più qualche goccia di purea di pistacchi per l’untuosità, pomodoro per la dolcezza e la leggera acidità, Parmigiano per la rotondità. Con la nota fumé della carne a cucire la “continuità del gusto”.

In chiusura, dopo il mangia e bevi di pera con zucchero affumicato allo zenzero e cioccolato bianco, l’immancabile millefoglie strachin, inventata dal nonno pasticciere. Una nuvola commestibile, come sognavano i futuristi, di cui si recupera la ricetta originale, a base di albumi montati al posto del latte. Quindi più leggera ma anche più effimera, possibile soltanto nella ristorazione.

 

 

In cantina sono pronte per l’abbinamento 150 etichette, scelte da Perbellini con Andrea Salvatori, sommelier passato per Isola Rizza e l’Enoteca Pinchiorri: 50 italiane e 100 internazionali, in ordine numerico. L’abbinamento ideale? “Sono malato di Borgogna”, risponde laconico lo chef.

Autrice: Alessandra Meldolesi

Tutte le fotografie sono di @AromiCreativi –

Www.aromicreativi.com


 

Ristorante Casa Perbellini

P.zza San Zeno, 16 – 37123 Verona

Tel:

+39 045 8780860

+39 045 8780860

Mail:

Info@casaperbellini.com

Www.casaperbellini.com

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