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Tutta l’energia del mare: la cucina di Alessandro Rapisarda

di:
Alessandra Meldolesi
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alessandro rapisarda copertina 970

Una gavetta paziente quella di Alessandro Rapisarda, che si è depositato per la prima volta dietro un pass. Quello del Café Opera di Recanati.

La Storia

La Storia di Alessandro Rapisarda


Una tempesta di schiuma rosa risucchiata nel gorgo nero e ocra, sopra lo specchio di una liquidità verde; qua e là trasportati dalla corrente frammenti vegetali di erbe e fiori. È legata al piatto vincitore del San Pellegrino Young Chef 2016, un risotto alla marinara ipnotico, che ha tutta l’inquietudine dell’energia del mare, “non meno buono che bello” puntualizza Mauro Uliassi, la fama di Alessandro Rapisarda, chef ventinovenne che ha atteso la sua prima maturità per iniziare a calcare la scena.

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Instancabile nel costruire il suo curriculum. “Della cucina mi sono innamorato andando con mia mamma e mia zia in una trattoria di Castelfidardo, per prendere qualche piatto da asporto: salivo dalle signore per fare la pasta e tirare la sfoglia; poi a casa dai dieci anni in poi ho iniziato a sperimentare. Cosicché per me è stato naturale iscrivermi all’alberghiero di Loreto, che mi ha subito appassionato. Il primo stage l’ho fatto da un cuoco che era passato per le cucine di Uliassi, Roberto Fiorini del Saraghino di Numana, poi dopo il diploma sono finito all’hotel Cantina di Palazzo Bello, dove era chef l’ex pasticciere del Fortino napoleonico, grazie al quale ho compiuto il primo stage ‘stellato’ al Moulin de Mougins, imparando a muovermi in una grande brigata. Quando sono tornato a Palazzo Bello ho iniziato a vedere Uliassi in televisione e su internet, mi incuriosiva, così sono andato a pranzo da lui, ho preso il degustazione tutto solo, quando è uscito gli ho consegnato il curriculum e mi ha preso. A Senigallia ho trascorso in tutto 3 anni, i primi 6 mesi in stage, poi agli antipasti. Mi ha influenzato tantissimo, soprattutto nel senso del gusto. E Mauro mi ha mandato in stage da Berasategui, altro cuoco classico e francesizzante”.

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“È stato così che per la prima volta sono diventato chef dell’Hotel Gallery di Recanati, dove ho cercato di fare la mia cucina, mettendo a frutto gli insegnamenti di Uliassi. Però avevo ancora fame di cose nuove, stava esplodendo il fenomeno Parini, così ho inviato il curriculum a Torriana e il giorno dopo sono stato richiamato da Fausto e Stefania. Mi sono fermato oltre un anno, nel 2011-2012: ero ai primi, con Francesco Brutto quale sous-chef agli antipasti e ai secondi. E Piergiorgio ci ha dato grande spazio, insegnandoci anche a fare i solisti, oltre a instradarci sulla via di tutto quanto è spontaneo”.

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Ristorante Café Opera



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Ristorante Café Opera



“Al mio ritorno mi sono fermato per 12 mesi allo Chalet Galileo di Civitanova Marche, dove lavoravo una grandissima materia prima, in arrivo tutti i giorni dall’asta; stava per scadere il contratto quando mi è entrato in testa Crippa, ho provato a inviare il curriculum due volte, senza ottenere risposta; così mi sono rivolto a Mauro Paolini, che era passato in stage prima di me, e dopo due settimane mi ha chiamato Enrico in persona. Il tirocinio è durato 6 mesi: essendo già ‘formato’ non sono partito dalle insalatine, ma ho approfondito il vegetale seguendo Enrico nell’orto. Da lui ho imparato l’importanza dell’acidità e la gestione dell’elemento grasso, che a Piazza Duomo è scarso e neutro, vedi l’olio di vinaccioli, che io sostituisco con un olio deodorato di semi di girasole. Un altro cuoco che considero geniale fin dai tempi di Cracco-Peck è Matteo Baronetto, dal quale purtroppo ho solo mangiato rientrando da Alba con Vincenzo Donatiello”.

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Ristorante Café Opera



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Ristorante Café Opera



Da 7 mesi le valigie si sono posate nuovamente al Gallery di Stefania Ghergo, dove in seguito alla vittoria del concorso San Pellegrino Young Chef e al premio per la migliore reinterpretazione alla finale mondiale è stato introdotto un menu degustazione su prenotazione, che da fine ottobre è a disposizione di tutti. In cucina con Alessandro c’è solo una signora che cura le altre linee, fra cui l’offerta vegana e vegetariana. La formula, composta di un minimo di 5 piatti a 50 euro, è tutta autografa, come solo Parini e Brutto sanno fare.

I Piatti

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Dopo gli appetizer (il bignè al pistacchio con la sua granella e la mousse di fegatini e foie gras; la deliziosa sfoglia di pizza al formaggio, ottenuta con tecnica crippiana da un apparecchio di patate e acqua di pecorino di fossa al glucosio, sopra una pallina al ciauscolo; il cannolo con ricotta, fave di cacao e saba; la panna cotta di mandorle con cappero del muretto dell’hotel, in omaggio alle radici siciliane dei Rapisarda).

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E’ ottima la partenza. Si tratta di ostriche di pollo, o sot-l’y laisse, impanate e fritte con bernese di olio di girasole alle ostriche frullate e misticanza. Oltre il gioco di parole, dovuto alla prelibatezza e alla testura liscia e succulenta del boccone, la mente vola a una caesar salad passata per la Francia, per l’importanza della salsa e per il binomio pesce-carni bianche. Le erbe arrivano dall’orto dei suoceri, dove Rapisarda si è ritagliato uno spazio sul modello Crippa, o da un vivaio a 200 metri dal ristorante. “Ma tante cose le colgo io girando in macchina, per esempio i fiori di borragine”.

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Il Moscow mule di gamberi rossi di Mazara del Vallo interpreta il genere del cocktail commestibile, riunendo sul piatto crostacei crudi, gelatina di lime, cetrioli di osmosi al gin e menta. A seguire le polpette di carne cruda di un macellaio della zona, da filetto di marchigiana ben frollato per massimizzare cremosità e gusto, con salsa ponzu e bietoline per il ferro sull’acidità. Un piatto crippiano nel giapponismo contaminato di Piemonte e nella vena vegetale. Forse il più debole del percorso.

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Il capolavoro è il coniglio in tre servizi. Si inizia dalla sella cruda, trattata come un filetto di pesce, anzi come la ricciola della puttanesca di Uliassi, avvolta nella pellicola per la forma cilindrica, abbattuta e affettata finemente. Ma il pensiero corre al coniglio crudo con il salmone di Matteo Baronetto, in forma di omaggio al territorio. Il canovaccio infatti è marchigiano: si tratta del coniglio in porchetta, con l’aglio strofinato sul piatto, l’olio neutro aromatizzato al finocchietto selvatico con mantecatura al Pacojet e decantazione, l’amaranto soffiato per il croccante e il tostato della crosta.

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Segue il rognoncino confit nell’olio neutro, per un esito di grassezza e pastosità, contrastato dal curry amaro di cetriolo, aneto, prezzemolo, semi di finocchietto selvatico e spezie al Bimby, più le mandorle anch’esse amare, reidratate in acqua frizzante secondo il metodo Uliassi, a ripulire. Eleganza e precisione.

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Il terzo servizio è per la pancia cotta sottovuoto al naturale (4 ore a 65 °C), tagliata a listarelle per un effetto nervetti, servita con un fondo di latte di cocco al lemon grass, finocchio e cipollotti al Bimby più una grattata di rafano. Una fusione fra il classico bollito al cren e una zuppa thai assaggiata in vacanza.

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La nota anisata ricorrente nel pasto trionfa negli spaghetti con canocchie al Varnelli. Dove i crostacei sono passati crudi, anzi vivi al tritacarne, secondo la tecnica di Piergiorgio Parini, e uniti in mantecatura agli spaghetti già saltati in un classico fondo di aglio e olio, per il gusto tradizionale, in modo tale da preservare la mineralità. Sul piatto viene nebulizzato del Varnelli, spinto da poca polvere di anice stellato, che con l’aromaticità e soprattutto l’alcol aiuta a rinfrescare. Marche allo stato puro.

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Esemplare anche il risotto, con il Rosa Marchetti cotto in acqua di pomodoro e acqua di ostriche e ricoperto da un disco alla Dacosta di gelatina di prezzemolo, rucola e crescione, per la clorofilla e il richiamo erbaceo alla tradizione. Rappresenta la tela per il gioco delle salse, tutte scaldate a 55 °C: quella di canocchie già assaggiata nello spaghetto, il fegato di seppia frullato con occhi e nero, i moscioli appena aperti in padella e passati al Pacojet con la loro acqua. Più un gel di yuzu suggerito da Oldani per la dolcezza e una cascata di erbe che lungi dal patire l’intensità dei contrasti, tengono loro testa apportando freschezza: finocchio marino del Conero, dragoncello, acetosella, coriandolo vietnamita per un’apertura globale. Il match, tesissimo, è fra sapidità e acidità: una scazzottata quanto mai riflessiva nella sua complessità.

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Dopo il sorbetto di uva fragola alla saba, intermezzo leggermente troppo dolce, di scuola francese ma in uso anche nelle Marche per spezzare i pranzi della tradizione, è quindi la volta delle scaloppine di vitello, ricavate da magatello marchigiano cotto sottovuoto a 80 °C in olio neutro aromatizzato ai funghi porcini secchi e alle parature fresche.

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Sul piatto il disegno delle polveri (funghi shiitake, porcini, tartufo, prezzemolo, capperi, topinambur con la buccia, poco anice stellato in dialogo crippiano con i funghi) ha finalmente un senso: svolge infatti le veci della farina, specialmente quando si impasta leggermente con il fondo bruno preparato con ossa e funghi tostati nella lionese in pari quantità. Umami puro, con qualche punta di agresto per il contrasto acido.

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Il finale, in stile Roca, è per un dessert ispirato al profumo Amen di Thierry Mugler: la sua nota dominante di patchouli (appena 1 goccia di olio essenziale per 5 litri di cremoso al cioccolato) profuma mirabilmente la bocca a fine pasto. Sul piatto con spugna di liquirizia e caffè, gelato di cioccolato e vaniglia per un monocromo bruno.

Tutte le fotografie sono di Lido Vannucchi

 

Indirizzo

Ristorante Café Opera

Via Falleroni 85 - 62019 Recanati (MC)

Tel. +39 071 981914

Mail: info@ghr.it

Il sito web del ristorante

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