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La fiamma Del Cambio: cosa si mangia allo Chef’s Table di Matteo Baronetto

di:
Alessandra Meldolesi
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Un ristorante nel ristorante: è lo Chef’s table del Cambio di Matteo Baronetto a Torino, 1 stella Michelin.

La Storia

La Storia del Ristorante del Cambio


Italo Calvino l’avrebbe ascritto al “partito della fiamma”, Matteo Baronetto. Chef che nel compassato Cambio di Torino, conservatorio di atmosfere sabaude, porta avanti una cucina che è “ordine dal rumore”, sottoposta a incessante agitazione interna. Il menu divampa spesso dall’improvvisazione, salvo qualche portata ormai cristallizzata, destinata a passare nel menu degustazione servito nelle due salette.

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È un bancone in legno a dividere la postazione, situata dietro la Farmacia, dalla cucina, luminescente come un’astronave. I posti sono al massimo quattro per un paio di serate a settimana. E la mise en place è minimale: una tovaglietta e i piatti appoggiati dai cuochi sul pass. “Come funzionano i menu? Sono il prosieguo di un percorso intrapreso 20 anni fa. In sala ci sono due menu degustazione, da 6 e 9 portate a 110 e 145 euro, dove si alternano carne e pesce, per fare emergere la mia identità. Poi c’è lo Chef’s Table, concepito perché l’ospite possa partecipare al massimo dell’esperienza gastronomica, non solo da spettatore. Sta alla cucina a vista come il teatro al cinema: fisico e inclusivo, richiede una maggiore attenzione. Dura oltre 3 ore e chi lo prova, nella stragrande maggioranza torna. Mi serve anche per testare alcuni piatti, che magari passano in menu, come è successo alle lenticchie e all’ostrica.

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La traccia è prestabilita, poi aggiungo o tolgo anche in base alla predisposizione dell’ospite, per un totale di 12-15 piatti al prezzo di 270 euro. Cambia sempre, compresi momenti di ‘improvvisazione ragionata’ (titolo fra l’altro dei miei due menu degustazione), perché l’atto è spontaneo, ma il ragionamento, dettato dall’esperienza, lo precede. Si prenota normalmente al ristorante, poi io richiamo per sondare aspettative e preferenze. E stabilisco il percorso, che è fisso. Conservo tutte le comande per evitare ripetizioni nelle visite successive e anche per documentare un momento, nel senso che lo stile in questi tre anni è cambiato. Il servizio è ridotto all’osso: il cliente deve accettare anche l’errore, in modo da riappropriarsi di un mondo e capire la sua imperfezione; per questo non avevo piacere di avere personale dedicato. I piatti li spiego io di fronte, il cameriere e il sommelier fanno il giro per le posate e per il vino. E posso permettermi di rischiare: perché al Cambio servo la borghesia e l’aristocrazia torinese in cerca di rassicurazioni, ma anche chi ha voglia di fare nuove esperienze. E non avrebbe senso proporre le stesse cose di Milano, visto che i luoghi sono altri”.

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Viene in mente la pseudomorfosi descritta da Oswald Spengler, per cui l’acqua può sciogliere i cristalli, senza intaccarne le cavità. “Sopravvengono fenomeni vulcanici che fendono la montagna; colate di materiale incandescente penetrano negli spacchi, si solidificano e danno luogo ad altri cristalli. Ma esse non possono farlo in una forma propria: sono invece costrette a riempire le cavità preesistenti, e così nascono forme falsate, nascono cristalli, la cui struttura interna contraddice la conformazione esteriore”.

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Fiamme in forma di cristalli (come i poli dell’Esattezza di Calvino): in questo caso un talento incendiario dentro il calco del ristorante di Cavour; e uno spirito indomito dentro ricette meno astratte, più leggibili e regionali del passato. Dove la cucina resta però quella di Baronetto: anti tecnica (“perché non è mai stato il mio forte, forse se avessi girato di più…”), talvolta perfino antiestetica nella sua brutalità, assemblata attraverso un montaggio di tre o addirittura due ingredienti dalla deflagrazione gustativa imprevedibile. Istinto puro. Il metodo creativo è spesso quello della similitudine, fra gusti o testure, con accostamenti elusivi come enigmi, tanto più riusciti quanto più sono lontani gli elementi. “Passo mesi a osservare le cose intorno a me. Un giorno ho messo in bocca un fico che sapeva di salvia ed è nata l’ostrica al sale con fichi e burro alla salvia. Ce l’ha insegnato Marchesi, del resto, che l’identità deriva dalla sensibilità del cuoco”.

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I Piatti

I piatti sono spesso ricorsivi, soprattutto nell’accostamento di terra e mare. Per esempio il riccio al sugo di vitello ed estratto di scorza gialla di limone: soia pura con un ricordo di Puglia. “È il mio rognone ai ricci 2.0, dove riassumo grandi materie prime attraverso il ristretto e l’echinoderma, più l’agrume per l’acidità mediterranea: tanta storia della cucina italiana. Ad accostare pesce e carne ha iniziato Ferran Adrià, ma ogni cuoco ha il suo passo. Lo schema è il gesto, di volta in volta differente”.

insalata piemontese 1
L’insalata piemontese è una miscellanea stagionale di ingredienti contadini (Del Cambio ha un orto proprio) finalmente conditi, sulla falsariga della giardiniera; quindi nocciole e uova, funghi sott’olio, amarene, cipolline della nonna, rape al vino rosso, peperoni all’agro per la classica acidità che apre lo stomaco a inizio pasto. Più le foglie di alga e wasabi per lo sprint piccante e la diversione.

lattuga solanova
Ma c’è anche la lattuga solanova alla brace con il guanciale appena poggiato sopra: un ricordo di grigliata e graticole caramellate di costine, con il salume trasparente che diventa condimento; ma anche di insalata con i bruciatini, più il caviale per la sapidità sull’amaro.

ostrica fin de claire
È poi un capolavoro tutto baronettiano l’ostrica fine de claire, carnosa e dolce, poco sapida ma iodata, cotta al vapore e servita con fettine di prosciutto cotto, sul modello della salsiccia in Francia. Finisce per evocare irresistibilmente la testura del grasso di maiale; mentre il salume di una gastronomia torinese (prossimamente proprio), setoso al punto giusto, è spennellato di una patina di burro nocciola, ingrediente di questi luoghi, per la massima untuosità e una sensazione empireumatica di arrosto. Vicino, per il consueto schema della comparazione, il medesimo prosciutto imburrato e tagliato a julienne è frammisto a bastoncini di erba ostrica. Grasso e iodio.

gamberi in salsa rosa
Fra le nuove piste di ricerca ci sono i piatti metacronici, dove la stessa ricetta è proposta in forma filologica e contemporanea, in modo da focalizzare l’attenzione su un ingrediente misconosciuto: il tempo, analogamente a quanto tentato da un altro torinese, Pier Bussetti. “L’originale è su un piattino, accanto alla mia interpretazione, in modo da tracciare un parallelo fra epoche diverse e fissare momenti di cultura nell’arco di 30 o 40 anni. Senza gerarchie di valore, ma evidenziando le regole del gusto che si sono affermate, come l’alleggerimento e la separazione fra ingredienti. Un messaggio che sto cercando di comunicare a modo mio, senza urlare, tanto che il cliente quando ordina non sa”. Significa scavare un altro cunicolo fra le sale del Cambio: cucina concettuale in senso stretto, tutta concentrata sui propri mezzi espressivi, come un orologio che ticchetta in bocca. Può trattarsi del vitello tonnato, della milanese, prossimamente delle penne panna e salmone o degli gnocchi alla bava. In questo caso tocca ai gamberi in salsa rosa, con il classico cocktail di fianco, satellite di crostacei appena passati al vapore, serviti su foglie di lattuga con una salsa all’uovo marinato e al ketchup alleggerita dal sifone.

Le acciughe al verde
Ma ci sono anche le acciughe al verde, da una parte classicamente sotto sale con salsa verde, dall’altra sott’olio, in modo da privilegiare la grassezza sulla sapidità, alternate ad alici marinate in aceto per la correzione acida e l’impatto grafico, più gli ingredienti della salsa disgiunti in purea all’aglio, uovo sodo e prezzemolo per impanare.

giardiniera al tonno sott'olio
La giardiniera al tonno sott’olio fatto in casa è rigenerata sotto sembianze di semi, con le puree dei vegetali appena scottati modellate in stampi ricavati da noccioli di pesca, albicocca, fava e arachide.

crudo di seppia
Ma Baronetto torna a dare il meglio di sé (secondo chi scrive) nei piatti astratti e binari, inconfondibili per struttura e centratura istintiva: in questo caso il crudo di seppia affettata finemente con melanzana anch’essa cruda, dove la ratio sta nella complementarietà fra le testure, una gommosa, l’altra porosa, solidali nel farsi mangiare; il trait-d’union nella salsa al tè affumicato che richiama la cottura.

La sella cruda di coniglio
Altrettanto folgorante la sella cruda di coniglio, servita con salmone marinato in sale e zucchero e mandorle affumicate (da mangiare prima) per l’altra preparazione tipica. Dove lo schema è quello classico del pesce con le carni bianche, chiamate qui a smorzare attraverso la loro “sensazione grassa” punte dolci e sapide, per una sensazione finale quasi di ventresca. Né è banale il confronto fra due testure entrambe scivolose, lubrificate dal condimento di burro nocciola. E le sembianze sono quelle classiche di una chiffonade marchesiana, vagamente anni ’80.

anelli di calamaro (2)
La similitudine è anche la molla creativa degli anelli di calamaro veri e finti, dove il cefalopode stracotto al vapore è sdoppiato in albume bollito e marinato in aceto durante 3 settimane, per emulare la gommosità, in un trompe-l’oeil che non viene preannunciato all’ospite. Giacciono su una salsa a base di prezzemolo bollito, quindi più balsamico che vegetale, spinta dalla colatura di alici.

la pizzaiola di ostia
La pizzaiola di ostia riprende una ricerca iniziata anni fa da Cracco-Peck. “Quando Camanini l’ha inzuppata nell’acqua di governo della mozzarella, ho voluto riprenderla in mano”. Imbibita di salsa di pomodoro, viene servita con acciughe, origano, olive e briciole di pane per un gusto mediterraneo. La sensazione è quella di una pizza sbagliata, con la base inumidita e scivolosa.

lasagna di lattuga di mare
È poi un capolavoro la lasagna composta di foglie di lattuga di mare dissalate e appena sbianchite, fino a simulare la testura di una pasta tirata sottile, condita con besciamella, ma alla maizena per celiaci, e ragù bianco di vitello.  Un omaggio alla lasagna verde di Marchesi, assemblata espressa, che reitera lo schema compulsivo del rognone e del riccio, congiungendo ittico e umami.

ravioli beccafico, alici sott'olio, insalata di erbe amare
I ravioli a beccafico sono preparati con una pasta verde al prezzemolo bollito, anziché agli spinaci, e per farcia gli ingredienti della ricetta siciliana: pane, uvetta, pinoli cremificati dalla cagliata di latte vaccino, che si liquefà in cottura. Vanno alternati alle alici sott’olio e all’insalata di erbe amare, cicoria, levistico, artemisia, più viole e pinoli tostati, per variare lo schema del primo piatto con l’intermezzo e per un contrappeso amaro delle stesse latitudini. “Ma anche qui c’è un ricordo di Marchesi, perché è la ricetta che ho fatto da lui dopo i ricci”.

triglia e animelle
La triglia con le animelle è servita nella Mistery di Salvetti, pentola che coniuga cottura al vapore e alla griglia, propiziando quella cucina “conviviale” alla Paolo Lopriore, che aiuta a variare lo schema del pasto. Sotto ci sono le verdure di stagione, sopra le frattaglie sbianchite e i filetti di pesce. “Perché i tempi di cottura sono gli stessi e perché il lattico dell’animella, che mia mamma mi bolliva da bambino, dialoga con l’eleganza della triglia di scoglio, uno dei miei pesci preferiti”. In accompagnamento, sempre in stile Lopriore, una girandola di condimenti o meglio divertimenti, secondo la tradizione italiana: la salsa della finanziera, i piccioli dei fiori di zucchina in carpione, con note ora di menta, ora di mandorla, ora di nocciola, i fiori di limone trasparenti, ma sodi in carpione, le zucchine sott’olio con prezzemolo e acciughe, il midollo al vapore e plancton per il modello del bollito in salsa verde.

fritto
A chiudere la cucina salata è la Milano spezzata, o Milano schiacciata, evoluzione della Milano sbagliata servita in via Victor Hugo. Dove il carpaccio non è più crudo con la crosta staccata, per far sentire il gusto della carne sotto una panatura maldestra; ma rivestito di amaranto fritto in stile corn-flakes, per la massima leggerezza delle testure. Un passo avanti nell’elaborazione del rapporto ambivalente con la città.

Guscio di cacao a forma di noce ripieno di semifreddo al cocco e mango
frutta
Al dessert, un guscio di cacao a forma di noce ripieno di semifreddo al cocco e mango, segue la frutta in tre stati: cristallines, ghiaccioli cubici, marinata (ananas alla salvia, anguria al bitter) per l’acquosità finale.

Tutte le fotografie sono di Lido Vannucchi

Indirizzo

Ristorante Del Cambio

Piazza Carignano, n2, 10123 Torino

Tel. +39 011 546690

Il sito web del ristorante 

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