Il Lab 2019 è un rodeo di impennate inconsulte e pause nervose. In continuità con le conquiste stilistiche che hanno guadagnato al ristorante le tre stelle, sulle tracce di vissuti rurali e bestie dimenticate.
La Storia
Cosa succede a un grande ristorante, quando improvvisamente scoppia la supernova della terza stella? Per capirlo basta saltare sul primo treno per Senigallia e dirigersi verso il lungomare, nel viavai delle biciclette che zigzagano fra i runner. Dovrebbe esserci un prima e un dopo quel 16 novembre 2018, quando Mauro Uliassi è salito a sorpresa sul palco della Rossa a Parma. Ma a sedere sulle poltroncine bianche con vista sabbia, l’atmosfera è quella di sempre: niente buchi neri dopo la terza stella. “Direi che è cambiato tutto, ma non è cambiato nulla”, commenta. “C’è una diversa consapevolezza, quello sì. Da anni lavoravamo a testa bassa e la passione paga. Poi è cambiata la clientela, l’attenzione nei nostri confronti si è moltiplicata, lo spirito di chi siede a tavola palesa un rispetto rinnovato. E con la responsabilità cresce il desiderio di far bene, che ci ha portato fin qua”.Lo stesso modello di ristorazione, assoluta anomalia in queste sfere, è immutato: un solo ristorante, nessun pierraggio ed eventi praticamente azzerati; due giorni di riposo per tutti, al fine di ricaricare le batterie, e perfetta collegialità nella fase creativa. Con Mauro che assume il ruolo di primus inter pares e diapason palatale del pool creativo, di cui fanno parte Mauro Paolini, Luciano Serritelli e Yuri Raggini.
Quest’anno, contrariamente al 2018, non c’è un Lab interamente nuovo, affiancato al precedente: la scelta è stata quella di una maggiore gradualità, con qualche piatto sopravvissuto al giro di calendario: il pancotto, i fusilloni col lardo di polpo e le morchelle con pesche e salsa al vino bianco, espressione di microstagionalità che riprende un hit di Cesare Giaccone. La cucina tuttavia mostra uno smalto ancor più lucido e un’energia euforizzante: spiazza con intuizioni gustative di rinnovata eleganza, ficcanti e contemporanee. Mentre continua a scandagliare il registro della memoria contadina, in connessione sentimentale con la sua clientela. “Ma la nostra forza è non avere uno stile”, dice Uliassi. Cosicché il prossimo piatto è sempre altrove, di là da qualche bracciata tonificante in lontananza.
Sembra quasi di essere accomodati su una sedia zoppa, di cui ora è una gamba a ritrarsi, ora un’altra, poi l’altra ancora. Perché i gusti, dice Uliassi, devono essere tutti presenti, mai nella medesima combinazione. Cosicché la sensazione è di rodeare sensazioni pronte a impennarsi in qualsiasi direzione, col rischio di finire scaraventati al tappeto.
Le apparenze possono essere rassicuranti: un’ostrica cruda sullo zoccolo di sale, un filetto di anguilla con la sua insalata. Ma il mix esplosivo, acido nitrico più glicerina, prima ancora che fra molecole o sapori primari è fra il noto e l’ignoto, secondo un’inveterata legge dell’estetica “maggiore”. “Occorre sempre stabilire un nesso fra ciò che ci portiamo dentro e il nuovo: una memoria personale, ma condivisa, che si connette al corpo”. La fune di una boa nella tempesta.
I Piatti
Gli appetizer non sono cambiati, dal wafer all’oliva, al crostino di acciughe e tartufo nero. Solo nel cestino si è affacciato un nuovo pane alle alghe (kombu, lattuga di mare, fagiolino), fra la pizza di Pasqua e la cialda ai semi.
Ed è subito un capolavoro l’ostrica irlandese, scelta per potenza e sapidità, che sguazza nel grasso sciolto a caldo di ciauscolo dei Monti Sibillini, più il pino limone per la balsamicità resinosa quale ago dell’equilibrio e i noccioli di olive a sottolineare la nota rancida.
Mare e campagna, noto e ignoto in un contrasto grasso/sapido che si allunga e si complessifica elegantemente, con il pensiero che corre alla Francia e alle sue huîtres et saucisse o crépinette. “Perché il rancido? È un elemento facilmente riconoscibile, come il fumo che è ricordo del camino. Qualcosa di individuale che ha connotazioni culturali, un elemento di storytelling che fa leva sui sentimenti delle persone. In questo caso la profondità del mare è congiunta a significati antichi. Ciò che ci premeva in questo Lab era riabilitare gli scarti e i difetti, i relitti di un mondo perduto con l’omologazione alimentare: anche questo in fondo è il compito di un cuoco”. Ed è una delle migliori ostriche di sempre.
Non sono da meno le canocchie à la coque, altro riscatto di un ingrediente bistrattato: i crostacei in fase di scarto eccessivo, rovesciato in potenziale virtù. Vengono abbattuti, decorticati e cucinati al vapore finché l’interno non raggiunge una virtuosistica consistenza cremosa, quasi da omelette al contrario. “E siccome con pesci e carni bollite si abbinano salse classiche, abbiamo unito una bernese di uova di coregone con limone, fagiolini di mare e dragoncello. E il succo delle teste sotto le polpe”.
Lo stato di grazia è confermato dall’anguilla, un tempo diffusa nelle Marche, oggi dimenticata come lumache e rane. Mentore nella riscoperta è stata Maria Grazia Soncini. “Di solito viene preparata grigliata o in umido. Noi abbiamo imboccato una via di mezzo. Quindi prima l’affumicatura e il passaggio sulla carbonella di carpano, poi il condimento con estratto di bergamotto al Rotaval e un brodo ristretto a caramello di arancia intera, ottenuto nella pentola a pressione. Più una misticanza di erbe Barardi, per dieci sfumature di clorofilla”. Il risultato è un circolo entusiasmante di grassezza e amaro, aromaticità e affumicato, che dà il capogiro al palato.
Esplora invece il registro della similitudine fra testure l’ossobuco di vitello abbinato alla trippa di baccalà, per un bis di collagene di terra e di mare. Dove il midollo è cotto nel brodo di vongole, con cui scambia sapore, e questo viene legato tipo pil-pil con le trippe di baccalà, più una spolverata di gremolada a rinfrescare e i semi di sedano per il soffritto mancante, testurizzato.
La seconda pasta sono i gobbetti con estratto di cicoria e salsa di prezzemolo, per un bis di sensazioni erbacee, amarotiche e minerali, con le lumache bollite per la masticazione in contrasto con la pasta croccante e i punti agrodolci di carpione in gel a fungere da ago della bilancia sulla lingua.
La novità del Lab sono anche le carni, diverse dalla selvaggina. Dopo l’ossobuco la testa di agnello, reminiscenza dei pranzi in osteria di Mauro col papà dopo la caccia. Viene cotta sotto sale per 2 ore a 80 °C, poi le parti molli sono scalcate e grigliate su spiedini con le erbe aromatiche di sempre. Lingua, guancia, cervello, perfino l’occhio sul piatto con brandelli di pane intriso nel brodo di pecora e spolverizzato al pecorino, in ricordo del timballo a strati cotto in forno, tuttora in uso nelle campagne marchigiane. “Mi è occorso del tempo per individuare la bestia giusta, perché trovavo solo agnelli poco saporiti, carenti della nota forte e stallatica che ricordavo, in quanto nutriti a cereali anziché al pascolo. L’ho trovata in Molise e sono teste che altrimenti verrebbero buttate via”.
La pasticceria quest’anno è firmata dal giovane Mattia Casabianca, passato per la scuola di Paco Torreblanca e Michel Roux. Alla granita amarotica di arancia con verdurine croccanti in osmosi di sciroppo al lemongrass, segue la bavarese di vaniglia con succo di Morlacco, gelato al rosmarino e punteggiature crispy.
Le fotografie sono di Barbara Santoro
Indirizzo
Ristorante UliassiBanchina di Levante, n 6 -60019 Senigallia (AN)
Tel. +39 071 65463
Mail info@uliassi.it
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