Si può dirigere un impero, con tanti ristoranti sparsi per il mondo e dodici stelle Michelin, continuando a essere chef, e non imprenditore. Lo dimostra Pierre Gagnaire, che non si rassegna ad appendere la toque in ufficio.
La notizia
Non è Pierre Gagnaire, il settantenne che cantava di non essere mai soddisfatto. Eppure, oggi potrebbe essere lui, con i capelli canuti aureolati da dodici stelle Michelin. La notizia è che c’è ancora futuro nel suo futuro, e sarà ambientato a New York, dove già il grande chef aveva firmato un contratto per insediarsi in giorni ancor più tesi di questi. Correva infatti il dieci settembre 2001, day before della catastrofe che ha mandato il mondo per aria. “Stavo per aprire un ristorante con il gruppo Ritz-Carlton, sono tornato a Parigi il 10 ed è successo l’undici settembre. In quel momento tutto si è fermato”.Il sogno, tuttavia, non si è mai assopito. “E adesso con questo progetto ho finalmente l’opportunità di venire nella migliore città del mondo. New York è speciale: la musica, i musei. È il melting pot del nuovo mondo, emerso non troppo tempo or sono. È senza dubbio la capitale mondiale della creatività, in tutti i campi. L’energia che trasmette è unica. Per farcela a New York, devi essere forte. E come chef, sono forte”. In pratica si tratta della prima brasserie Fouquet degli Stati Uniti, franchising che cura per gli hotel Barrière, in apertura per il prossimo autunno a Tribeca.
“Quando ho firmato per Barrière, la mia mission era ricostruire lo spirito gioioso del brand. Fuori dalla prima sede, sugli Champs-Elysées, trovi il mondo del cinema, le stelle, la musica ed era importante ricostruire lo spirito del cibo. Lo abbiamo fatto”. Anche a Tribeca il pubblico troverà gli arredi eleganti in stile art déco e l’atmosfera frizzante di joie-de-vivre. “Il mio compito era creare qualcosa di facile, senza pretese. Ma non è McDonald’s. È un concetto che offre qualcosa di molto francese, ma tocca anche lo spirito della città dove si trova. New York è cosmopolita, aperta al mondo e alle influenze di tutti i continenti. So che i newyorkesi amano la loro carne, quindi non manca.
Penso amino anche il loro granchio, quindi non manca. E ovviamente dobbiamo adattarci alle ultime tendenze, soprattutto la dieta vegetariana, quindi provvederemo anche a questo. Ma in Francia e a Londra, per esempio, è completamente diverso. Lì prediligono tartare, salmone e lumache”. Della Francia resteranno comunque alcune icone, come la sogliola alla mugnaia e la zuppa di cipolle, oppure la pasticceria sulle ruote del carrello.
“Essere un grande chef non è solo questione di cibo, ma anche di un modo di comunicare, creare una storia, raccontare un luogo. So che qui a New York è difficile, perché è già stato fatto tutto e la gente lo sa. Ma penso che nel tempo si vedrà che possiamo offrire un modo diverso di vivere la città. Sarà molto difficile trasmettere emozioni col cibo qui, perché è una città molto dura e diretta, ma è il mio obiettivo. Dobbiamo trovare il cuore dello chef e creare arte nel piatto. È la mia ambizione”.
“Non sei mai il migliore chef del mondo. Ho avuto tre stelle in diversi ristoranti, da Parigi a Tokyo, da Seul a Shanghai. Ma questo non vuol dire smettere di sperimentare. Bisogna lavorare, chi non lavora è morto. Amo cucinare, è la mia passione. È la mia vita. Non si tratta di soldi: non sono un imprenditore, sono uno chef e voglio restarlo. Il mio sistema è semplice: sono profondamente coinvolto nelle cucine. Scrivo tutti i menu e cerco di controllare tutto ciò che si fa. Non posso essere ovunque perché è impossibile, ma ogni chef deve spiegarmi cosa pensa e come fa le cose. Quando si lavora, non si è mai soli. È sempre una famiglia, una squadra. Lavoriamo onestamente e appassionatamente, ma sappiamo che gli errori sono normali. Quindi il mio telefono è sempre acceso. Possono chiamarmi quando vogliono. E penso che la vera chiave della mia credibilità, sia la connessione con gli chef”.
Foto di copertina: @Getty Images
Fonte: hauteliving.com
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