Celle di maturazione ipertecnologiche e un menu che spazia dal pesce alle alghe: il nuovo ristorante di Mauro Colagreco ospita uno laboratorio marino 2.0. Ecco cosa lo rende unico.
La notizia
Il mare è il nuovo, infinito serbatoio dell’alta cucina. Non c’è solo Angel Leon a scandagliarlo: a indossare la muta, sotto la giacca da chef, è oggi Mauro Colagreco. Il luogo non è il Mirazur, ma il nuovo ristorante Ceto, presso il Maybourne Riviera Hotel, sempre sulla Costa Azzurra. A picco sul mare, la struttura non ha solo il vantaggio di una vista mozzafiato.Era dal suo arrivo in Riviera negli anni 2002, che la vista concupiscente dello chef argentino si era posata sull’allora Vista Palace, suggestivamente appollaiato su una penisola rocciosa, dove già intravvedeva un ristorante. Oggi quel sogno si è realizzato grazie all’inaugurazione di un fine dining nella migliore delle collocazioni, con terrazza all’ultimo piano. La formula, cambiando location, non è sovrapponibile a quella di Menton, nelle cui cucine il mare incontra la terra, le montagne e l’orto. Colagreco parla piuttosto di un “laboratorio marino”, un “marine culinary workshop”, monocromo blu.
Nell’ambizione di creare qualcosa di più di un ristorante, Colagreco ha intrapreso una collaborazione con il Museo Oceanografico di Monaco, il cui fine è la selezione di pescato stagionale e sostenibile per il ristorante. Dopo aver studiato le diverse tecniche di maturazione del pesce, come quella tradizionale in Giappone, Colagreco ha anche messo a punto la sua cella di frollatura nell’arco di due anni: “Non ci sono molti strumenti di maturazione capaci di una simile precisione. Io stesso sono rimasto sorpreso da come riusciamo a esaltare gli aromi”. La temperatura è compresa fra 1 e 2 °C, l’umidità è fissa al 30%, con un muro di sale rosa che ne cattura l’eccesso e tiene a bada i batteri.
E di fatto lo strumento troneggia all’ingresso del ristorante. “Controllare la maturazione del pesce permette di centrare il punto culminante della curva organolettica, sviluppando talvolta sentori ignoti”, racconta Colagreco. Di sicuro cresce l’umami, mentre la testura si rassoda. L’idea è quella di sperimentare su pesci grassi, come sgombri e bonito, anche di grossa pezzatura, fino a 40 chili, per due o tre settimane. Ma le prove sono durate mesi. Il vantaggio è anche per la sostenibilità, in quanto il pesce si conserva più a lungo, non si producono scarti ed è più facile rispettare le quote. “Inoltre non è più necessario usare il pesce intero, tutto in una volta, ma poco a poco, secondo i bisogni della cucina e quasi integralmente: mascelle, parti dove resta polpa, vescica natatoria, lische... Senza tecniche che lo snaturino, come l’affumicatura o la salagione”.
Ma al Ceto ci sono anche le grandi griglie, per un souvenir delle sardine divorate in gioventù sulle spiagge argentine. E tante alghe, come quelle essiccate e disposte a strati con toffee e vaniglia, per un millefoglie che prosegue le linee di forza del menu. Non solo pesce, quindi. “Come chef trovo più interessante lavorare con una tavolozza più ampia, in modo da esprimere tutti i gusti e le consistenze del mare. Mentre mostriamo alla gente la biodiversità dell’oceano, possiamo imparare a rispettarla e valorizzarla. L’oceano è una fonte sconfinata di cibo, ma solo se ce ne prendiamo cura”.
Fonte: www.robbreport.com
Foto: Crediti Ristorante Ceto