Dalla Gioconda di Gabicce Monte, Davide Di Fabio, storico alter ego di Massimo Bottura, salta nell’olimpo della ristorazione italiana grazie alla padronanza del gusto in un quadro concettuale in fieri.
Ristorante La Gioconda
La storia
Per Massimo Bottura, Davide Di Fabio è stato qualcosa di più di un sous-chef. Lui lo ha definito “uno di famiglia” con Marco Bizzarri, CEO di Gucci, al momento di raccomandarglielo: “Ti metto in mano mio figlio”. Il giovane abruzzese era arrivato alla Francescana nel 2005, non ancora ventenne, fresco di alberghiero, ed è poi rimasto 16 anni. A cavalcioni del razzo da una a tre stelle Michelin. Di fatto la sua formazione si è svolta praticamente tutta a Modena. “È difficile spiegarlo. Fin da subito è scattato qualcosa: mi sono innamorato della sua filosofia e del suo modo di pensare”, racconta. “C’era qualcosa che ci accomunava nel profondo, oltre al palato, che girando insieme per il mondo si è evoluto di pari passo”.
E c’è proprio il grande chef modenese dietro il suo decollo in solitaria. “Io volevo avvicinarmi alla mia compagna, che è marchigiana. Ed è stato Massimo a mettermi in contatto con Stefano Bizzarri, figlio di Marco, che dopo aver acquisito l’Osteria del Viandante stava per intraprendere una ristrutturazione importante. Ma il nome non è cambiato: la Gioconda negli anni ’50 era un dancing. Quando sono arrivato, ho trovato un locale vissuto con una magia ancora dentro. Erano gli anni in cui la Riviera significava divertimento; ho sentito un’energia strana, un po’ surreale”.
Il ristorante
Oggi l’impressione è quella di una struttura con potenzialità oltre la stella: conta una cinquantina di coperti su due piani, all’interno e all’esterno, con una galleria d’arte all’ingresso e un piccolo cinema per commedie all’italiana accanto ai bagni. Suggestiva la cantina, affidata ad Alessio Di Iorio, sommelier con esperienze al Fat Duck, alla Francescana e da Nobu. Le referenze (quasi 500) rappresentano la quadra fra i gusti di tutti, con i piccoli produttori in evidenza accanto alle grandi maison. A 500 metri dal ristorante, poi, ha sede l’orto, con 7 miniappartamenti ancora non completamente ristrutturati, affacciati sul castello di Gradara. Mentre per le aromatiche c’è l’erbario sotto il ristorante.
L’idea è quella di una cucina adriatica, che spazia dalla Romagna fino all’Abruzzo. Gabicce si trova esattamente sul confine marchigiano: da una parte la dolcezza del nord, dall’altra la sapidità del centro-sud, secondo la famosa partizione marchesiana, che rivive nel concetto di rottura fra dolce e salato. Ma è l’allure felliniana della Riviera, goduriosa e decadente, a permeare seducentemente il menu. “Siamo il primo o l’ultimo paese delle Marche, con l’Adriatico sotto e il Montefeltro alle spalle. Quindi arriva una grandissima materia prima, dal pesce alle carni, al tartufo, con tutto il mio passato nella cassetta degli attrezzi. Lo sforzo è quello di privilegiare il gusto italiano, anche al termine di un giro per il mondo, vedi la tartare che ricrea il wagyu con ingredienti locali e identitari”.
La definizione gustativa è made in Francescana, per dovizia di pixel, saturazione del colore, agilità sensoriale, potenza controllata. Ma in un habitat concettuale in fieri. “Nel piatto cerco innanzitutto l’equilibrio: puoi sentire una spinta acida, ma viene subito rintuzzata dalla dolcezza o dalla grassezza in una sorta di ‘sapore collettivo’. Esercizio questo che ho portato avanti con Massimo. Poi verso la fine del percorso la tensione cresce, per ritrovare lo stimolo a mangiare. Ma la nostra cucina è ancora in divenire; per esempio, stiamo riflettendo su un carrello o due da tenere in sala, per recuperare forme di servizio tipiche di queste zone”.
Capitolo ingredienti, il pesce arriva da piccole imbarcazioni che rientrano la notte, quindi è super fresco, tanto che può essere difficile da lavorare. Per le carni si va dalla lumaca di Bologna alla selvaggina di Zivieri; mentre gli oli sono 5, da cultivar diverse. “Fornitori che per me sono una parte della squadra e del successo del ristorante, insieme ad Alessio e Stefano, alla sua compagna Allegra Tirotti, che ha curato gli arredi, e al mio secondo Alessandro Fabbrucci”.
I piatti
Oltre alla carta ci sono due menu, Riviera e Orizzonti, da 6 e 9 portate a 65 e 100 euro. La postazione di Di Fabio in Francescana, prima della promozione a sous-chef, era di capopartita agli antipasti. Paradossalmente, tuttavia, non sono i piatti che restano più impressi. Piuttosto stupisce l’applicazione di quello schema compositivo alle altre corse, dove spesso manca una gerarchia fra gusti o ingredienti e la composizione si libra capricciosa.
Si inizia con un souvenir di Modena: il borlengo preparato con la classica pastella, ma alle alghe, una puntina di lardo macinato con bottarga e alga nori, scorza di limone verde. Poi la classica liquidità di inizio pasto, attualmente un brodo di funghi misti, dall’acqua rilasciata naturalmente cuocendo al vapore, per un pieno di umami, più zenzero per la freschezza e il piccante, olio ai porcini e di arancia per il territorio. Infine, il ravanello dalla testura deliziosa, affettato finemente, marinato con abbondante sale, mescolato a lungo per estrarre l’acqua, strizzato e condito con olio al sesamo. “Perché mi piace prendere una verdura dell’orto e farla diventare croccante; in estate anche il cetriolo”.
La saraghina facsimile è un piatto “bistabile”, a doppia lettura. Un po’ piadina al pesce azzurro, un po’ blinis al caviale. Quindi il pesciolino marinato con olio di cipollotto, cedro candito ed erba cipollina; lo spuntone di squacquerone montato come se fosse panna acida; la cantarella, sorta di piadina sottile, cotta come i blinis. “Davide Paolini dice che la saraghina non è un pesce, ma un’idea di Romagna. Qualcosa che volevo nobilitare, sdrammatizzando il caviale con un gesto”. In abbinamento Di Iorio spariglia con l’Albana Passita di Fattoria Monticino Rosso, una provocazione data la collocazione, riuscita per territorialità e armonia.
Una delle fonti di ispirazione della cucina di Di Fabio è il vintage anni ’80, decennio dello chef. “Erano anni in cui furoreggiava il cocktail di gamberi. Ho iniziato a lavorare sulla materia prima: mazzancolle e gamberi rosa crudi, per la dolcezza e la collosità, appena conditi con olio e sale. Poi una salsa rosa ricreata con l’acidità del tamarindo e la dolcezza della rapa rossa, che insieme trasmettono quella sensazione. Erano anni di colori forti, quindi il nero della polvere di arancia bruciata e il giallo della maionese con curcuma e curry, quasi un elemento di disturbo per evocare la follia coeva; sotto le foglie di lattuga per il croccante e l’acquosità”.
Il baccalà alla scarola scherza sui tempi in cui Gabicce era la Capri dell’Adriatico. “Ma protagonista è l’insalata, con il mantecato che funge da condimento sapido e marino. Il modello è la ricetta campana con le uvette, ripensata con la scarola saltata all’aceto di uva passa, un mix di foglie carnose, aromatiche, amare che cambiano ogni volta, un condimento di succo di oliva ascolana al finocchietto, salsa amara di limone intero macerato in sale e zucchero, olio all’alga nori per l’umami. Ma in futuro mi piacerebbe comporla al carrello”. Nel bicchiere un Lefkos Cenatiempo, blend di biancolella e forestera che richiama il mare dentro e fuori il piatto, altro criterio di selezione delle referenze in carta.
È poi ottima la zuppiera, altro piatto bistabile fra due tipicità abruzzesi, il brodetto e le virtù, con la pasta per il recupero del giorno dopo. La cabala è quella dell’icona teramana, con sette tipi di pesce crudo, ma a diversa temperatura, altrettante salse (aglio, prezzemolo, pomodoro, cozze, vongole, canocchie, fegato di seppia…) e paste, risottate nel brodetto e legate con crema di legumi. Gusto top.
Il tortello di pasta al pomodoro è quindi un frattale di primi, ancora legato concettualmente alla Francescana nel sincretismo e nella rottura del tabù sulla ripetizione degli amidi. “Al Postrivoro avevo portato questa idea di raviolo farcito di pasta al forno, per unire l’Emilia della pasta fresca all’Abruzzo di quella secca. Perché, come dice Massimo, si tratta di contenitori di idee. In questo metto la mia pasta al pomodoro (i tubettini, il pomodoro super concentrato, la crema di ricotta e mozzarella di bufala col Parmigiano); poi manteco con acqua di pomodoro, burro e Parmigiano. Ma sto già passando al ripieno di passatelli con emulsione di burro e Parmigiano, estratto di salvia, fondo di vitello, riduzione di arancia e genziana”.
“Adoro le coscette di rana gratinate del pescatore. Unisco quelle finte di pescatrice grigliata alla terra attraverso le lumache alla bourguignonne, con l’alga per l’umami marino, il succo di prezzemolo, una misticanza di ruta e maggiorana, la vinaigrette allo scalogno, la salsa di erbe di campo, le alghe tritate”. Altro gusto top.
Il predessert è una pasta e fagioli che riprende la tradizione abruzzese dei dolci di legumi, nello specifico i caggionetti ai ceci. “Una sera nel mezzo del servizio avevo fatto una crema di legumi misti con le prime castagne, buonissima. Ci ho messo del rhum, della scorza di limone e mi è venuta in mente la pasta e fagioli, che ha una tendenza dolce spiccata. Così ho aggiunto i quadrucci, l’olio al rosmarino e il sorbetto al nocino”. In abbinamento un Porto Graham’s 1994, che richiama la frutta secca e il sorbetto.
È iconico, dopo il risotto con la cartolina vintage, il millefoglie di francobolli, per una nostalgia di giovinezza e d’estate. “In vacanza mi è sempre piaciuto spedire cartoline. Poi mi intriga l’idea di far mangiare la carta, considerata la cartiera storica di Fabriano. Ho messo insieme le due cose, sostituendo alle sfoglie pezzi di carta passati nello zucchero e caramellati, appena croccanti. In mezzo ci sono creme che possono variare, da quella classica della tarte au citron alla mandorla, al cioccolato”.
Chiude la neola, o ferratella, altra tipicità abruzzese. “Il concetto è sempre quello della rottura del confine fra dolce e salato, ma dalla parte opposta. Non si tratta di introdurre una verdura nel dessert, ma di esaltare la dolcezza di un piatto ‘salato’, come può essere il tortellino alla crema di Parmigiano. In questo caso è il fondo di anatra, che viene caramellato con Grand Marnier e succo di arancia in una riedizione della crêpe Suzette, che ha la piacevolezza di un pezzo di carne. In Abruzzo la cucina è molto sapida, tanto che stando in Emilia ogni tanto sento il bisogno di spezzarla con un po’ di dolcezza”.
Foto per gentile concessione del ristorante
Indirizzo
Dalla Gioconda
Via dell'Orizzonte, 2, 61011 Gabicce Monte PU