Nell’atmosfera ovattata del Park Hyatt, a Pellico 3 brilla il menu del giovanissimo Guido Paternollo. Esperienze di rilievo per un curriculum in costante evoluzione e una cucina già matura, di cui sentiremo parlare.
Pellico 3 al Park Hyatt
L'hotel
Il Park Hyatt di Milano è uno di quei luoghi in cui si può chiaramente percepire la reale valenza di un concetto come quello di ‘cura del dettaglio’. Non è così semplice far sì che nulla sia lasciato al caso, anche in un ambito di alta accoglienza come questo. Eppure, proprio all’Hyatt, a due passi dal Duomo, adiacente a un cuore pulsante della città qual è Galleria Vittorio Emanuele l’ospite è sacro e come tale viene accolto.
L’atmosfera è come ci si aspetta: ovattata, lascia fuori la frenesia del centro per far spazio a quella discrezione elegante che costituisce uno degli aspetti fondamentali e intangibili del lusso. Entrando dall’ingresso principale si nota subito una grande cupola di vetro che sovrasta e dà il nome a uno spazio suggestivo e molto luminoso. Tanto gli ospiti dell’albergo quanto i clienti esterni possono godere di una ricca colazione, a partire da ottime viennoiseries e di un all day dining che si prolunga fino alle 23. Va conosciuto anche il Mio Lab Bar, cocktail bar di notevole livello per gli appassionati di mixology a cui si accede proprio di fronte alla Galleria.
Se gli spazi comuni sono sontuosi, non manca lo spazio per Aqvam, la urban SPA e le 106 stanze (incluse le bellissime suite) che concentrano raffinatezza e soluzioni abitative all’avanguardia, con il comfort che regna sovrano negli ampi spazi, tra tappeti taftati a mano e mosaici.
Pellico 3 e lo chef Guido Paternollo
Da un luogo del genere ci si sarebbe potuti aspettare per la ristorazione una scelta istituzionale, magari affidando Pellico 3, ristorante gastronomico integrato alla struttura e piccola punta di diamante della stessa, a un professionista blasonato. La (felice) scelta della proprietà e della dirigenza, a partire dal general manager Simone Giorgi, è stata invece quella di puntare su un giovanissimo come Guido Paternollo, classe 1991, con una lungimiranza a nostro giudizio davvero illuminata.
Del resto, a capo del food and beverage c’è un personaggio di spicco del calibro di Nicola Ultimo, già maître del due stelle Vun con Andrea Aprea, ora appunto Pellico 3. Il giovane chef, oltre che coordinando le cucine dell’hotel, esprime al massimo il suo talento nello spazio di 120 metri quadrati di una nuova sala giocata sulla sobria eleganza di colori pastello, comode sedute e una selezione di opere d’arte di importanti artisti contemporanei. In sala si trovano tutte persone molto giovani, ma decisamente adeguate al contesto e brillanti: al timone la brava Giusy Chebeir.
Di Paternollo vale assolutamente la pena ripercorrere la storia, piuttosto lunga a scapito della giovane età, attraverso le sue parole: “Una delle motivazioni che mi ha spinto a fare il cuoco è che si può avere la visione istantanea di una trasformazione: all’inizio mi appassionava tantissimo tutta la parte fisico-chimica che sta dietro alla cucina, poi riflettendo mi sono reso conto che la cosa che più mi piaceva - e nel mio lavoro precedente nel mondo dell’ingegneria non esisteva - era il fatto di riuscire a far star bene una persona istantaneamente, perché se riesci a fare qualcosa di buono puoi far sì che un ospite sia contento, sorridente: ed è la cosa che più io apprezzo, soprattutto dopo gli anni trascorsi in Francia”.
Facciamo un passo indietro: Guido è un ragazzo di buona famiglia milanese: studi scientifici, laurea in ingegneria, esperienza di lavoro in un importante ambito industriale. Della sua conversione, avvenuta per gradi, racconta: “Non c’è stato un vero e proprio momento di folgorazione; ho iniziato ad avvicinarmi a questo mondo tra i 16 e i 17 anni ai tempi del liceo, quando un problema legato alla mononucleosi mi ha costretto a casa per 3 mesi. Mia mamma aveva tutte le riviste della Cucina Italiana e c’era il canale del Gambero Rosso. Viste le giornate praticamente vuote, ho iniziato a leggere e a guardarmi le trasmissioni, provando a cucinare un po’ per i miei. Poi è accaduta un altro fatto che mi ha spinto a pensare, perché mio padre ha avuto un momento in cui è stato poco bene. Credo questo mi abbia aperto un po’ gli occhi.” Così si chiede se la carriera di ingegnere fosse davvero quella giusta, e prova a cambiare: “Non è che io sia partito con la certezza assoluta, mi sono dato sei mesi di tempo: se con la cucina non fosse andata bene sarei potuto tornare indietro. Che mi potesse piacere cucinare in casa va bene, ma tra quello e fare il cuoco c’è un abisso.”
Gli esordi non sono stati semplicissimi “Ho iniziato a mandare in giro il curriculum a tutti gli stellati di Milano perché era da lì che desideravo cominciare. Avrei voluto fare uno stage (lo avevo scritto chiaramente) ed ero disposto a pagarmi tutto quello che serviva: volevo solo entrare e mi ero fatto due conti. L’opzione era scegliere un’ottima scuola di cucina e spendere ventimila euro, così mi sono detto: perché non investirne la metà chiedendo agli chef di insegnarmi a cucinare?” Naturalmente nessuno gli risponde e lui scrive a tutti gli stellati della regione. Ancora nulla, così si rassegna a compilare i moduli per una scuola. Controllando le mail in spam scopre invece che tre giorni prima gli aveva scritto Remo Capitaneo, allora secondo di Enrico Bartolini: “Ho chiamato subito e ci siamo visti al Mudec: così sono entrato. Quando gli chiesi come mai proprio loro, due stelle, stessero dicendo di sì proprio a me, mi risposero ‘noi di solito prendiamo quelli che arrivano dalle scuole, ma negli ultimi due anni sono durati due mesi: tu ti sei fatto 5 anni di ingegneria, magari un po’ di buona volontà ce l’avrai’”. Guido entra al Mudec da stagista, 3 mesi dopo è capopartita agli antipasti, 8 mesi lì e va ai secondi. È decisamente determinato: “Sono rimasto al Mudec un po’, ma volevo andare da Yannick Alléno: non avevo altre opzioni in realtà.” Vola a Parigi nel giorno di pausa e fa il colloquio. “Parlai con Sandrine, direttrice delle risorse umane. Mi disse che avrei dovuto conoscere il francese e io non lo sapevo.” Dirotta quindi su Marc Veyrat (mi piacque: negli ultimi dieci anni tutti si sono messi in bocca la parola foraging, lui lo faceva regolarmente negli anni 80/90) che aveva una brigata con molti italiani.
Lì passa la stagione estiva e a settembre si ritrova da Alléno, dove rimane tre anni, prima di approdare al Plaza Athénée dopo essersi confrontato con Martino Ruggieri. “Con lui ho sempre avuto un bel rapporto; è stato duro ma lo ringrazio molto. La scelta sarebbe stata tra un superclassico come Epicure o uno più moderno, ma mi piacque il Plaza e ci sono rimasto fino a quando Alain Ducasse è andato via. Avrei seguito Romain Meder all’Admo, ma c’era un periodo vuoto fino all’apertura.” Ecco allora che Guido è di nuovo a Milano, dove è proprio Enrico Bartolini a segnalarlo al Park Hyatt. “Lì per lì gli dissi che non pensavo di essere all’altezza, sarebbe stato un salto enorme da fare, da sous chef a executive di una struttura cinque stelle lusso in cui prima c’era un 2 stelle Michelin. Un salto immenso: non mi spaventava la parte gestionale. Facevo già creazione piatti, ma c’era sempre qualcuno che li validava. Qua sei tu che decidi tutto. Però ho con me persone bravissime a partire da Mario Musiello che mi fa da braccio destro ad Andreas Karapaos che mi ha seguito da Parigi e ancora al pasticciere Alessio Gallelli che si occupa anche di tutta la panificazione ed è bravissimo. Non sarei qui se non ci fossero stati loro con me.” Confessandoci poi che in effetti ciò che lo ha fatto innamorare veramente del mondo dell’alta cucina è “la pressione a cui sei sottoposto, perché quando lavori in ristoranti di alto livello se va bene sei giudicato solo una volta al giorno, se va male due, e questa è una cosa che mi piace molto”.
I piatti
E a noi sono piaciute un sacco tanto la sua cucina (alla quale non manca nulla) quanto la sua maturità, che appare piuttosto fuori dal comune quando dice: “Alla fine stiamo parlando di azienda, quindi io non posso pensare di far un percorso di degustazione tutto sull’amaro e sull’acido e poi ritrovarmi con il ristorante vuoto. Certo, si potrebbe anche essere spinti a farlo, con camere e bar che ti proteggono. Ma mi chiedo: se fosse mio, sarei disposto a perdere? Secondo me, se si guardasse a queste cose, cambierebbe la visione generale. Trovo che in un ristorante si vada per mangiare, non per stare a scervellarsi e capire per quale motivo lo chef abbia fatto una determinata scelta. Perciò non posso pensare di lavorare per le guide e fare piatti solo per la critica. L’acidità in un piatto la metto per bilanciare, non per farla prevalere. Tutti i piatti dovrebbero essere piacioni, in fondo. Io non sono in cucina per fare un’ostentazione di me o di noi, ci sto perché l’ospite si alzi dalla sedia e dica: ho mangiato bene, ci tornerei.”
Difficile non sposare la sua tesi, dato che la passione per l’avanguardia è una nicchia che non può diventare mainstream. Posto questo, lui è davvero parecchio bravo e qui ci si diverte con una cucina ben lontana dall’essere semplice, perché la complessità, molto ben governata, c’è tutta. E dietro a ogni piatto c’è tanta tecnica, mai fine a se stessa però.
Si sta bene subito, con l’amuse bouche, uno solo, partenza che sovverte l’usanza (quasi) mai messa in discussione di una lunga serie di finger: qui si gusta un crudo e cotto di verdure di stagione su una vinagrette al miele di castagno e lime, di una golosa semplicità che nasconde un’idea cesellata alla perfezione. Il percorso inizia con la zucchina, utilizzata in tutte le sue parti e servita in tre portate, anche in questo caso un piccolo capolavoro di dettagli sistemati in modo da ottenere il massimo da un singolo ingrediente declinato in più interpretazioni. A partire dalle rondelle di zucchina trombetta cruda disposte su una maionese di pistacchio di Bronte e stracciatella, condite con dell’olio al levistico. Poi è la volta del fiore di zucca in tempura con una tapenade di olive Nolca. Per ultima, la base del fiore ripiena con crème fraîche, susine Regina Claudia e succo di limone.
Viene quindi servita un’insalata di pomodoro e astice: da una vera e propria insalata di pomodoro messa a macerare viene estratto il succo: chiarificato, diventa la gelatina che sta alla base del piatto sulla quale vengono disposti dei pomodori datterini a rondelle, conditi con sale e olio alla vaniglia. La portata viene terminato con delle foglie di basilico greco e l’astice cotto alla brace: inutile dire che bilanciamento e armonia inducono al sorriso.
Riso, burro all’alloro e anguilla è un’idea gustativamente molto brillante che nasce dalla ricetta del ‘capitone di Natale’: viene usato un Carnaroli dei migliori, cotto con brodo vegetale e successivamente mantecato con tre differenti tipi di burro: all’alloro, acido e dolce normale. Alla base del piatto viene posta una crema di limoni arrostiti sulla quale si adagia il risotto, quindi l’anguilla, affumicata e laccata con salsa teriyaki al barbecue, zeste di limone fermentato e infine caviale siberiano. Non possiamo che immaginare la Paella sui generis di Paternollo come un magnifico inno alla gola: “Ho scelto di inserire questo piatto nel menu perché per me ha sempre significato l’arrivo dell’estate e il senso di condivisione. Partiamo dal soffritto tipico spagnolo con cipolla, aglio, harissa e paprika affumicata, quindi tostiamo il riso “a bomba” e lo bagniamo con una bisque fatta con i carapaci di gamberi rossi di Mazara. Una volta cotto e formato il socarrat, la tipica crosticina alla base del pentolino della paella, andiamo a terminare con dei gamberi rossi crudi, del carpaccio di triglia, l’aïoli, la pelle di pollo croccante, foglie di sedano e del succo e scorza di lime.” Raramente ci è venuta voglia, come in questo caso, di chiedere un bis.
Grande raffinatezza assistita da altrettanta tecnica nel successivo primo, nato dalla volontà di riproporre gli spaghetti panna e limone tipici della Costiera Amalfitana. Il servizio è previsto in due piatti diversi: nel primo c’è una royale al limone affumicata e condita con crema di limoni arrostiti e uova di luccio. Nel secondo gli spaghetti sono mantecati con dell’acqua di pomodoro, pepe e limone nero d’Iran. Il gioco, riuscito, è prendere la pasta rovesciandola nella royale, mescolando e terminando in questo modo la mantecatura. Il dentice che segue è un piatto (molto buono e dalla cottura precisissima, anche in questo caso) che, ci racconta Guido, “ha una preparazione che mi riporta con la bouillabaisse subito all’estate. Il pesce viene fatto maturare almeno 3 giorni per concentrarne il gusto. Alla base ci sono la rouille, mandorle fresche e non, oltre al dentice cotto al barbecue”: tutto viene finito poi con la bouillabaisse. Golosissima anche l’animella di gola di vitello che dopo essere stata pulita e sbianchita viene cotta in padella con fondo di pollo ridotto e vin jaune fino a quando non è perfettamente glassata. Il piatto si chiude con della portulaca condita con una vinaigrette all’aceto di ortiche, lavanda e salsa a base di vin jaune, carote e funghi champignon.
Vale la pena raccontare anche il predessert: meringa di ceci e panna acida al lime, in cui la prima serve per fare la scarpetta nella seconda. Di notevole freschezza e contrasti dolci-amari, infine, ciliegie e sambuco, da un ricordo d’infanzia dello chef del passaggio da primavera a estate: amarene, ciliegie al naturale, composta di ciliegie senza aggiunta di zucchero, vinaigrette all’aceto di sambuco, sorbetto al sambuco e rucola selvatica. Bando alla scaramanzia, qui al Pellico 3 è (decisamente) nata una stella.
Indirizzo
Pellico 3 Milano al Park Hyatt
Via Silvio Pellico, 3, 20121 Milano MI
Tel: 02 8821 1236
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