Mondo Vino

Il vino dell’idea: Walter De Battè, il vignaiolo che sogna di fare un vino a Chernobyl

di:
Alessandra Meldolesi
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primaterra vini de batte

La Storia

C’è chi l’ha definito il “Van Gogh” del vino italiano, Walter De Battè. E ad incontrarlo nella sua cantina di Riomaggiore, scampata per miracolo all’”airbnbizzazione” delle Cinque Terre, la parola schiva e composta, quasi signorile, si inabissa ripida verso profondità inconsuete, come il mare verticale di fuori. Se è vero che il vino disegna un triangolo a geometria variabile, i cui tre vertici sono l’uomo, il territorio e il vitigno, come teorizza Sandro Sangiorgi, lui si colloca risolutamente su un angolo aguzzo: quello autoriale. Fino a lambire, nella sua enologia irriverente, modus operandi di natura artistica per libertà e visione.


È il vino dell’idea, che si tratti di un grande rosso di mare da invecchiamento, il Cericò, che orienta il navigatore verso il Rodano e la sua grenache, o dell’Altrove, folgorante uvaggio in cui la vigna sopra Riomaggiore diventa una tavolozza di colori per il talento del paesaggista. Vermentino, bosco e rossese bianco, come si conviene, ma anche roussanne e marsanne. “Perché avevo bisogno della macchia mediterranea e della resina sulla scheggia minerale delle Cinque Terre”. Giusto per fare un paio di esempi.


La nostra è l’epoca della riscoperta dei bianchi, con varie tecniche di vinificazione”, dice. “Ci sono quelli che si rifanno all’Armenia, quindi operano lunghe macerazioni e affinano in recipienti di terracotta o nuovi materiali come il gres; altri che hanno preferito recuperare le tecniche del Mediterraneo, che implicano una macerazione sulle bucce non lunghissima, protratta al massimo per 15-20 giorni, e l’affinamento di qualche mese sui lieviti. Sono vini più legati al territorio e alla persona che li fa”.

-              È la scuola in cui ti riconosci?

Sì, lavoro in questo senso dagli anni ’90. Rispetto alla classica vinificazione in bianco, esita in vini più complessi, con più colore e più acidità volatile, che porta profumi e ricchezza, ma non deve mangiarsi il sorso. Deve essere un discorso nel racconto del vino. Poi ci sono i tannini, perché lo Sciacchetrà, per esempio, senza astringenza non è Sciacchetrà. E le componenti ossidative, che se integrate rappresentano un valore aggiunto, mentre l’enologia classica le vede come il fumo negli occhi.

In un certo senso si tratta di invertire la freccia del tempo e viaggiare a ritroso nella storia del vino, che nei suoi 8000 anni ha cambiato molte volte modo di presentarsi e di esprimersi. Volendo semplificare, per chi si siede in cantina, ci sono state la nascita in Armenia e nel Caucaso, poi l’estensione in Israele, l’adozione da parte dei Fenici, dei Greci e dei Romani, che hanno portato la vite verso nord. Quindi la fase armena, quella mediterranea e quella mitteleuropea. Sono dell’opinione di intraprendere un percorso che ci riporti indietro a quell’idea mediterranea, verso una cultura specifica della contaminazione.


-              In tutto questo, tu dici che Gravner ti ha dato il coraggio di osare. L’espressione che tanti chef usano per riferirsi a Ferran Adrià.

Gravner ha avuto la folgorazione sulla via di Tbilisi, andando in Armenia e nel Caucaso ha riscoperto come facevano il vino e ha riconosciuto il suo futuro. È tornato sul Collio e ha buttato via tutto, impianti di refrigerazione, barrique… Sono arrivato nel 2003, credo, con una lettera di presentazione di Veronelli, perché non riceveva facilmente. Io già facevo macerati più o meno intensi, a temperature variabili, avevo un mio bagaglio di conoscenze in materia ma lui mi ha liberato dalla paura. Ho preso il toro per le corna, ho eliminato la refrigerazione e ho cercato di vedere cosa succedeva, così a mani nude. Personalmente non uso l’anfora, anche se mi piacerebbe sperimentare il cocciopesto, che è crudo, quindi non trasmette sentori metallici.


-              Poi non hai mai smesso di sperimentare, per esempio unendo diverse vendemmie o piantando vitigni insoliti.

Altrove, per esempio, è un contenitore mediterraneo, in cui ho riunito uve liguri e provenzali. Non esisterà più come lo abbiamo conosciuto, perché ho perso le vigne, ma nulla vieta che possa proseguire diversamente, inserendo altri vitigni di questo mare come, che so, la malvasia delle Lipari o il catarratto siciliano. Perché è il vino del viaggio. Ma io non sono un pittore, che ha i tubetti di colore. Devo piantare le vigne e attendere 4 o 5 anni. I tempi cambiano. Poi con la materia nelle mani cerco sempre di trasmettere un’idea. La mia stella polare, in particolare, è la concezione greca del vino come rappresentazione, perché sotto Dioniso c’erano due elementi, il vino e il teatro. Il più grande studioso di Dioniso, Karoly Kerenyi, ha lasciato morendo un testo sulla divinità. Da giovane filologo, appena laureato, si era recato presso il teatro greco di Cuma e lo aveva trovato abbandonato come il vigneto circostante, che stava prendendo il sopravvento. E i Greci avevano due modi di dire “vita”: bios e zoe, dove la prima, che è la vita del singolo, finisce nella seconda. La cellula originaria della vita è sempre andata avanti: è una forza che nasce dalla terra. Sogno di fare un vino a Chernobyl, perché Dioniso vince sempre su tutto. Dioniso ci salverà.


-              Che studi hai compiuto?

Niente di particolare, qualche studio tecnico. Lavoravo come tecnico elettronico mentre portavo avanti la mia ricerca personale. A 20 anni da operaio frequentavo il seminario lacaniano, una delle cosiddette “catacombe”, ho ripreso in mano Nietzsche e altri, appassionandomi sempre più. Ma il vino c’era già perché qui c’è sempre stato: nelle Cinque Terre tutti avevano un vigneto.


-              Quali sono i tuoi progetti attualmente?

Ho tante collaborazioni in Liguria, terra cui sono legato visceralmente da amore e odio, e un paio di progetti in Abruzzo. Non so ancora a cosa porterà il mio lavoro ad Atri, in mezzo ai Calanchi, ma mi affascina affrontare un terreno simile che muta in continuazione, come se unisse la terra alla luna.

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