“La mia è una cucina regionale italiana, ambientata in Sardegna”, dice Leonardo Marongiu, volto noto della ristorazione italiana.
La Storia
La Storia di Leonardo Marongiu
Ha poco più di quarant’anni, Leonardo Marongiu. Ma è una vecchia conoscenza per chi bazzica la ristorazione italiana. Un talento di quelli che finora non avevano trovato requie, strozzato fra sogni infranti e avventure naufragate, che non hanno inficiato la sua voglia di fare, temprata da scuole importanti. Da un anno e mezzo, tornato nella sua Sardegna, è alla guida di un ristorante che testimonia dell’indubbia crescita isolana: mentre fino a qualche anno fa c’erano solo Petza, Deidda e Pomata, oggi alle loro spalle si delinea una seconda linea agguerrita e capace, giovane e coesa, capace di valorizzare indubbi giacimenti, in termini di materie prime e di vini. Come se pian piano l’avanguardia fosse stata raggiunta da riscosse di fanteria e cavalleria.
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Marongiu del resto ha tutti i mezzi per far bene. Figlio di un operaio emigrato in Brianza, rientrato precipitosamente dopo il disastro di Seveso per lavorare come bracciante agricolo, è cresciuto in campagna. “Il mio compito era abbeverare l’orto la mattina: con la terra ho consuetudine, dal seme al frutto. Poi, siccome i soldi scarseggiavano, da giovanissimo sono partito per lavorare. Mi affascinava il mondo dell’hôtellerie, i cuochi in regione erano pochi e studiare costava troppo, così ho optato per l’artigianalità. E con la cucina è stato amore a prima vista. Dai corsi sono uscito con i voti più alti della classe, nonostante fossi il più giovane, cosicché insieme ad altri ragazzi meritevoli sono stato inviato al Palace Gstaad, albergo svizzero di alta caratura. E da lì ho iniziato a girare per hotel a 5 stelle. Poi è successo che pian piano ho scoperto una cucina che non conoscevo, ho iniziato a mangiare a destra e a manca finché non ho aperto il mio primo ristorante a Parma”.
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Gli è stato utile per il passaggio successivo: il ruolo di assistente di Luciano Tona e poi executive ad Alma, nel corso di quasi 6 anni, durante i quali ha affiancato i più grandi cuochi italiani, da Bottura a Cannavacciuolo, con coup de coeur per Leemann e Lopriore. “Ed è stato confrontandomi con loro che ho imparato a pensare con la mia testa”. Il ritorno alla ristorazione si è svolto a Porto Piccolo presso il Bris, dal sestante che consente la navigazione senza bussola, proprio grazie a Tona e Grignaffini. “Un ristorante bellissimo, come una Ferrari, con 7 cuochi e la vista sulla baia sottostante, poi passato di mano. Facevamo una cucina ‘austroungarica’, con tecniche internazionali applicate al gusto mediterraneo. Ricordo il gulash di tonno o la pasta rafano e pepe con prosciutto affumicato e pecorino sardo”. Vi è transitato anche Terry Giacomello, appena rientrato dal Noma, già in contatto con l’Inkiostro.
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A quel punto non sono mancate le proposte anche stellate, da Saturnia a Cortina. “Ma io avevo voglia di rientrare e sbatterci la testa. Non poteva credere che la ristorazione sarda fosse irriformabile, quando qui conosco il prodotto e posso dargli il profumo che cerco”. La proposta della cooperativa sociale Progetto H, che si occupa di reinserimento, è capitata nel momento opportuno: anche se Marongiu continua a svolgere altre attività, in veste di consulente per l’Accademia di Casa Puddu e non solo, è questo l’ubi (anzi l’Hub) consistam del suo movimentato talento.
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Il Ristorante
La formula del resto è originale, oltre che in fieri: il pranzo rappresenta l’esca, utile per vincere la diffidenza della clientela e creare pian piano un diverso mercato. C’è la mise en place, con i piatti finiti in sala da Marongiu, ci sono i primi espressi che escono dalla cucina e anche una piccola carta, con una formula fissa a 15 euro. Ma il tiro si alza la sera, di venerdì e di sabato, con piatti più complessi e 2 degustazione, da 3 portate a 39 euro e 5 a 55. Sotto la leva del capatappi finiscono una cinquantina di etichette, con innesti friulani e siciliani sullo zoccolo sardo.
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“Se dovessi definirla, direi che faccio una cucina regionale italiana, ambientata in Sardegna”, sintetizza Marongiu. E i piatti più riusciti sono proprio quelli di ispirazione territoriale, cominciando dagli ingredienti. Il pesce arriva tutto da Bosa, le verdure sono quelle di un orto che fornisce primizie come ceci verdi e bacche di goji fresche, ma presto arriverà anche la serra. Né manca il foraging, praticato su coste tappezzate di salicornia e finocchio marino oltre che nei boschi, ricchi di ovoli e porcini. Macomer non è famosa come Porto Cervo, ma vive tutto l’anno di agroalimentare, grazie a consorzi come quello dell’agnello sardo igp e del pecorino romano. “Aggiungo che in generale l’annata conta più della stagione, perché talvolta è buono l’olio, talaltra il miele. E io detesto il sottovuoto, utile (limitatamente) solo a fini di conservazione”. Le cotture sono à l’ancienne, con la padella sul fuoco; lo stile di impronta marchesiana per pulizia e riflessività, con autentiche trovate qua e là.
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I Piatti
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I piatti di benvenuto sono sempre numerosi. È tanto semplice quanto piacevole la cozza ripiena di dadolata di zucchina alla mentuccia con emulsione di mitili e sfoglia del verde al Glucodry, amarognola sul tripudio iodato. Ma ci sono anche la tartare di scampi battuta al coltello e condita con olio, sale e lime, servita con cotenna di maiale sardo soffiata e pepe rosa di un albero di campagna, e la crocchetta liquida di ostrica sarda con riduzione di panna al vino bianco e dragoncello, abbattuta, impanata e fritta, accompagnata da insalatina di erbe e gel fluido di aceto rosso. “Un ingrediente ben presente nelle nostre tradizioni, un po’ dimenticato per imitare i cuochi del nord. Invece io punto sull’acidità, il sale e le spezie”.
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Che si fa sul serio lo mette in chiaro la terrina di foie gras di anatra con ciliegie e ravanello all’aceto, territorializzata dalla spennellata di abamele, prodotto tipico sardo, ottenuto dai resti del favo completo di polline e cera, e dall’abbinamento con il “Sauternes sardo”, la Malvasia muffata di Bosa. “Perché ho viaggiato, voglio sentirmi libero di preparare una buseca o una cassoeula, mi piace nobilitare gli ingredienti sardi con qualcosa di speciale”. Lo vuole il nome stesso del ristorante: Hub, luogo di transiti e di coincidenze al minuto.
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È divertentissimo il cervello sbollentato, infarinato e passato nell’uovo con abbondante nepitella, rosolato nel burro nocciola e servito in un barattolino con fumo delle erbe del litorale marino come l’elicriso, per la magia della testa di un porcheddu.
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Bella anche la carne cruda, bue rosso battuto al momento, condito con olio fruttato, sale e limone, emulsionato all’acqua frizzante per esaltare i cromatismi e sormontato da un tuorlo impanato e fritto, che varia le consistenze di una tartara grazie alla crosta croccante. Mentre all’acciuga sopperisce la bottarga, perfetta come il caviale sull’uovo, più pomodorini confit, gel e polvere di pomodoro. “La contestualizzazione regionale di un piatto internazionale”.
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Sono poi ottimi i primi, per esempio gli spaghetti freddi, reminiscenza di Marchesi che rimbalza dall’Estremo al Medio Oriente nello spazio transiti dell’Hub. Cotti e raffreddati espressi, sono mantecati con tahina, succo di lime e di zenzero e conditi con zenzero candito, lattuga sbollentata, polvere di alga nori per l’erbaceo marino, sesamo nero e gamberi crudi.
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Mentre pescano nel folklore gli zichi di Bonorva “brodettati”, interessante ibrido di pane e di pasta. Si tratta di una focaccia lievitata di cui viene servita la parte superiore, più callosa; nel brodo caldo di muggine o tracina si arriccia in una variante isolana del pancotto, rinfrescata da pepe di Timut e curry verde, con il brodo appena legato dagli amidi. Ma un intero capitolo della carta è dedicato ai pani di Sardegna.
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I secondi stringono il focus sulla materia: il manzo arrostito in padella, “senza sottovuoto né magie”, con bernese al finocchio marino come l’agnello al tabacco di mela Golden, ottenuto dalle parature ossidate e ben tostate.
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Il resto della mela va nel dolce: un attrezzo la detorsola e affetta, lasciandola intera; cosparsa di zucchero moscovado e farcita di crema alla fava di Tonka, viene passata in forno per 3 minuti con un fondo di vino e zucchero, poi caramellata al cannello e guarnita con la sua salsa, amaretto e gelato fiordilatte. Nel ricordo struggente di dolciumi d’infanzia, gastronomicamente corretti.
Indirizzo
Ristorante HubVia Lussu n 3 - 08015 Macomer
Tel. +39 0785 226107
Il sito web