Nei suoi locali di Cagliari Luigi Pomata mette in tavola i riti atavici delle tonnare. Coniugando qualità, successo popolare, prodotti eccellenti e grandi numeri.
La Storia
La Storia di Luigi Pomata
Una lotta amorosa con il tonno che prosegue ormai da tre generazioni, non meno epica di quella fra il pescatore Santiago e il pesce marlin, all’ultimo strappo di lenza. È il romanzo della famiglia Pomata, abbozzato da nonno Luigi, che a Carloforte era responsabile della divisione delle prede per la salatura e la bollitura, ma aveva anche un ristorante d’albergo e d’inverno, quando la tonnara chiudeva, traslocava la sua sapienza in campagna, un po’ come tutti i carlofortini, per coltivare l’orto.
“Ero bambino, ma ricordo bene quando si svegliava con mia nonna alle 6 per raccogliere i pomodori”, racconta oggi Luigi. “Oppure le bottiglie di salsa, che bollivano sul fuoco dentro le calze. Non ho dimenticato neppure il taglio del tonno, che non mi ha mai impressionato. Da noi è diverso dal Giappone, non in filetti, ma in quarti e poi in sottotagli: coda bianca, coda nera, tarantello, ventresca, bodano per il mosciame, schienale, buzzonaglia, spuntature, guance, gola frontale… Perfino la lisca veniva utilizzata per estrarre l’olio. La ventresca è il taglio migliore, ma il più interessante è la targia, un pezzo sottogola molto grasso, che i giapponesi chiamano satoru”.
“Il ristorante poi era passato a mio padre Nicola, che tutti chiamavano Nicolo per un errore sull’insegna. Uno che già negli anni ’60 aveva provato a cambiare qualcosa. Da lui ho imparato a muovermi in cucina, poi ho fatto l’Alberghiero ad Alghero e una serie di esperienze in giro. Con Sirio Maccioni a New York, Marco Pierre White a Londra e Antonio Ghilardi a Bergamo, fra gli altri: mi hanno tutti lasciato qualcosa. Finché 10 anni fa non ho aperto il mio primo ristorante a Cagliari, dove adesso c’è il Next, un lounge bar per gli aperitivi con pizza, hamburger e piatti easy. Dopo qualche anno mi sono spostato, perché avevo bisogno di spazi più grandi, e quest’anno mi sono ripreso anche i vecchi. Cosicché a Cagliari ho il ristorante, ma anche la pizzeria e il bistrot; a Carloforte continuo a seguire il locale di famiglia, con il punto di ristoro informale, l’hotel e il bar pasticceria”.
Solo nel capoluogo operano in tre cucine indipendenti 14 cuochi, fra cui gli chef Abele e Mauro, e 36 dipendenti, per una media di 200 coperti al giorno. Le pizze, affidate alla pala di Carlo, con la consulenza di Sandro Cubeddu, esperto di impasti e lievitazioni, sono guarnite post cottura con prodotti sardi, come il tonno ovviamente. “Seguo la filosofia del couscous, specialità di Carloforte, utilizzando gli amidi come basi per qualsiasi cosa, anche l’ingrediente più pregiato”.
La cucina è generosa, nei gusti e nelle porzioni. Punta sulle materie prime: il pesce 100% sardo di 4 fornitori, in parte stoccato, per star dietro alla domanda, in parte del giorno, “senza nome se non fuori dall’acqua”; gli ortaggi raccolti nella zona più vocata, che giocano un ruolo di spicco insieme alle erbe, forse per via dell’influenza ligure su Carloforte, dove la cucina è koinè.
Per esempio le patate viola, che un tempo servivano per delimitare gli appezzamenti. Soprattutto c’è lui, il tonno rosso certificato, acquistato perlopiù all’apice della bontà, il migliore del mondo, perché quando arriva dall’oceano atlantico a maggio e giugno, ed entra nel mare mediterraneo lungo la sua corsa amorosa per deporre le uova, è ricco di grassi e pieno di sapore, e la prima tonnara che incontra è quelle di Carloforte; poi al rientro, dopo l’accoppiamento e la deposizione delle uova, la carne è magra e stanca; ma da fine agosto torna in auge. Ogni taglio ha la sua ricetta: la buzzonaglia insieme alla salsiccia compone una campidanese per condire i maccheroni, spolverizzati di pecorino semistagionato e menta; le guance sono laccate al miele amaro; la targia subisce una cottura veloce in stile tataki su una padella incandescente con le erbe, poi è raffreddata e riportata a temperatura. Elaborazioni in larga parte espresse, grazie alla brigata numerosa. “Ma qui facciamo tutto da zero, compresi il pane e la pasta”.
Poi c’è il tonno sott’olio etichettato Pomata, dalle stagionature record, proposto perfino in verticali con diverse annate di rossi non troppo tannici. “Lo produco io stesso, scegliendo esemplari compresi fra gli 80 e i 120 chili, che dopo la cottura, una maturazione prolungata nei barattoli e gli opportuni controlli di laboratorio vengono inscatolati. A evolversi è soprattutto il gusto, che si affina come accadrebbe a un grande vino, perché i grassi omega-3 diventano eleganti e delicati; mentre la testura si fa sempre più vellutata. Personalmente ho assaggiato latte di 20-25 anni davvero eccezionali, ma deve trattarsi di ventresca. Va consumata al naturale, con del buon pane e un’insalatina di pomodori e basilico. E la conservazione avviene fuori dal frigorifero. Basta stoccare i contenitori al riparo dal caldo eccessivo, per esempio in cantina, per un tempo che può protrarsi a piacere”.
Al ristorante manca un menu prefissato: si mangia alla carta, ma è possibile far confezionare un degustazione sartoriale sulle proprie preferenze per un prezzo medio attorno ai 50 euro. Anche a base di tonno rosso di Carloforte, praticamente tutto l’anno. L’abbinamento può pescare fra 200 etichette selezionate da Antonello Pomata e amministrate da Gabriele e Christian: la maggioranza è per i bianchi e le bollicine, sia nazionali che francesi, ma ci sono anche birre artigianali e rossi sardi morbidi e leggeri, quindi ideali per il pesce, come Carignano e Monica.
I Piatti
Chi chiede tutto tonno riceverà in antipasto un must di Pomata datato 1993: la tartare con spuma di mozzarella campana. “All’inizio la servivo con centrifugato di sedano, mela verde e limone, poi in inverno ho virato sul latticino. Di solito utilizzo il filetto o meglio ancora la parte rossa attaccata alla spina, che è più compatta e saporita. Viene battuta leggermente al coltello, per non scaldarla o farla ossidare, e rifinita sul piatto con una foglia di erba ostrica selvatica tipica di Carloforte, dai sentori iodati”.
Dal 1973 in menu a Carloforte c’è la linguina di papà Nicola: si tratta di pasta di Gragnano condita a crudo con un tonno sott’olio di 10 anni, capperi di Selargius, meno salati di quelli di Pantelleria, olive verdi e nere, sul piatto una grattata di scorza di limone e pecorino semistagionato per il leggero piccante. “Un piatto sempre attuale, per i sapori ben definiti e la freschezza”.
Altro piatto firma è il Rossini rivisitato con il filetto di tonno appena scottato, la scaloppa di fegato grasso di anatra, una salsa di Cannonau ridotto e addizionato di miele di cardo e timo selvatico, senza tartufo; la guarnizione in estate è una classica melanzana infornata con menta e scorza di arancia.
Ma la carta è anche altro. Vedi la crema di zucca sarda, cotta intera in forno con erbe e poi svuotata, ricca e sapida. Viene servita con la seppia sporca, marinata in extravergine di Bosa ed erbe aromatiche, poi passata in padella 30 secondi per lato. Completa il piatto l’olio di lentischio, una bacca selvatica che è macchia mediterranea pura. “I pescatori usavano il nero per condire la pasta e le interiora nelle emulsioni; mentre noi abbiamo lasciato tutto com’era”.
Oppure il tagliolino con battuto di gamberi rossi, uova di sgombro, tartufo nero sardo, pomodorino confit e basilico, un piatto semplice, fresco e contrastato; il calamaretto farcito di mozzarella e mortadella appena scottato con crema di finocchi all’anice stellato e dadolata di finocchio fresco a rinfrescare, per giocare sullo iodato del mollusco con diverse sapidità.
Il finale è per la mousse di cioccolato bianco caramellato con salsa di fragole macerate nel Carignano, ciliegie disidratate croccanti, gelato fiordilatte di capra e wasabi per l’acidità e il piccante.
Tutte le fotografie sono di Paolo Piciotto realizzate per il libro “Tonno” di Luigi Pomata edito da Italian Gourmet
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