Al S’apposentu, migliore ristorante sardo, Roberto Petza congiunge creatività culinaria e imprenditoriale, territorio, naturalismo e impegno. Il suo è un progetto totale, volto a squarciare il paravento turistico sull’autentica identità isolana.
La Storia
La Storia di Roberto Petza
Un tempo era la villa liberty di una stirpe di pastai, i Puddu, quello che è diventato il S’apposentu, in dialetto il “salotto buono” della ristorazione sarda. Tavoli rotondi e tovagliati fruscianti dove tintinnavano i proventi di un’industria andata inesorabilmente in panne. Da un lato il cortile cinto da un cancello su una stradina di paese, dall’altro l’inaspettato squarcio bucolico sulla campagna della Marmilla, come è chiamata questa parcella di entroterra per le sue forme sinuose, punteggiate di paesini in via di spopolamento. O almeno così sembrava.
Il trasferimento dal Teatro Lirico di Cagliari fino a Siddi di quello che è unanimemente considerato il primo ristorante sardo è infatti il tassello di un progetto vasto e visionario: più che un luogo, una metafora. Ci sono già il b&b Sa Domu de tzia Ernesta, con le sue 3 camere a pochi metri dal ristorante, e l’accademia Casa Puddu, scuola di cucina ubicata nel paese più piccolo dell’isola, Baradili, su una piazza dove risuonano le pietre di Pinuccio Sciola. Rivolta a un target diversificato e completa di camere per i corsisti, mette nel mirino i prodotti tipici della Sardegna, approcciati con tecniche tradizionali, classiche o innovative; nel parco docenti, oltre allo stesso Petza, professionisti del calibro di Matias Perdomo, Salvatore Tassa, Gianluca Fusto, Giuseppe Carrus e Gianluca Biscalchin.
Ma allo studio c’è anche uno spin-off in stile Spazio, dove verrà servita al pubblico una carta più easy: i fornelli infatti, contrariamente alle comuni scuole di cucina, ricalcano quelli professionali, cosicché i discenti possono imparare a muoversi fra due fuochi e due cuochi. Soprattutto ci sono i gangli di un tessuto complesso, in cui immettere nuova linfa. “Produttori che abbiamo in un certo senso creato, perché qui l’economia era al collasso e gli ultimi vecchi coltivavano la terra per hobby e autoconsumo. Ma quando hanno constatato che il ristorante ingranava, hanno aperto la loro partita iva. A dimostrazione del fatto che è possibile ripartire anche nella penultima provincia italiana, dove la disoccupazione giovanile viaggia verso il 65%, in una zona peraltro fertilissima, svuotata dalla pseudo rivoluzione industriale degli anni ’60, pompata dall’assistenzialismo e già dileguata. Il 90% degli ingredienti che utilizzo è sardo, per la maggior parte di prossimità. Penso ai vitelli allevati allo stato brado, saporiti e tenaci; allo zafferano di San Gavino, dove sono nato; al riso seminato dai piemontesi, che qui cresce benissimo. Alle 56 erbe spontanee che raccolgo nella natura circostante”.
I vantaggi sono vari, di ordine economico e non solo. Il risparmio è notevole nella colonnina delle spese, soprattutto per gli affitti. Ma in generale si tratta di rivitalizzare tutto un territorio, sottratto alla necrosi della crisi economica, e di battersi per la riscoperta di un’identità fatta di cultura contadina e tradizioni pastorali, dopo il declino di chimere quali la grande industria, la chimica, le miniere. Un’ipotesi di sviluppo per tutta la regione, oltre la cortina sfavillante di una Sardegna da cartolina, dove il turismo resta confinato sulle coste, senza sbocchi (ed è incredibile) nell’alta ristorazione. Roberto Petza è un rivoluzionario conservatore, impegnato nella salvaguardia dell’identità sarda attraverso l’innovazione. La forza della sua cucina sta innanzitutto nel progetto, ovvero nella capacità, nel senso etimologico della parola, di proiettarsi sul territorio. “Perché in Sardegna la ristorazione langue: il mercato gira pochi mesi l’anno, la stampa resta al largo e i nostri giovani migliori, da Manuele Senis a Oliver Piras, hanno comprato un biglietto di sola andata”.
“Sarà per questo che il mio curriculum non è fatto di stelle e di stelline, ma di tante esperienze in giro per il mondo. Partendo da radici prossime alla terra, in una famiglia dove la raccolta era prassi quotidiana. Penso all’elbutzu, zuppa asciutta che si preparava con un mazzo di foglie, e più erano varie, meglio riusciva. O ai viaggiatori che nei loro diari si stupivano che le carote non andassero coltivate, ma crescessero selvatiche nei campi. In questo senso la mia cucina è esotica: perché il prodotto che mangi da me, non lo trovi da nessun’altra parte”.
“In casa eravamo sette figli, quindi bisognava trovare in fretta una professione. Io sognavo di fare il falegname, come mio nonno e mio zio, la mia vocazione era quella; ma secondo mia madre era un lavoro di sacrificio, voleva iscrivermi alle magistrali e io di nascosto firmai per l’alberghiero. Forse perché la cucina somiglia un po’ alla falegnameria, dove si elabora, si assembla e si crea; talvolta si conserva in un’operazione di restauro”. Garzone di macelleria, pagato 2000 lire e un incarto di fettine a settimana; lavapiatti e cameriere; commis chino da mattina a sera a pulire polpi, seppie e calamari, fino a far scoppiare le caviglie; poi cuoco da Parigi alla Corsica, fino in Spagna e in Inghilterra, investito di mansioni creative all’Osteria della Brughiera di Villa d’Almè, mai nel cono d’ombra di un maestro, Petza è tornato in Sardegna nel 1998.
“E ho dovuto riappropriarmi delle mie origini, confrontandomi con le vecchiette per estorcere loro qualche ricetta o mettendomi sulla pista del prodotto, in un confronto ininterrotto”. Inaugurato nel 1989 a San Gavino, il suo S’apposentu ha traslocato nel 2002 a Cagliari e nel 2010 a Siddi, in uno scenario rurale che gli ha fatto infilare nuovamente le mani nella terra. Oltre all’orto con le erbe ci sono le galline, i conigli e gli asini; ma Petza confeziona e affina anche pecorini da latte crudo del pastore. “Una scelta obbligata, data la mediocrità dilagante”. Né manca il laboratorio di falegnameria, rifugio dove scaricare la tensione dopo il servizio, da cui sono fuoriusciti i mobili restaurati delle camere e del ristorante, tanti soprammobili e suppellettili da tavolo, nonché una parete di porte colorate che vivacizza l’ingresso.
I menu degustazione sono due, di terra e di mare, con 6 corse a 65 euro, 95 con abbinamenti; cambiano a scadenze irregolari, secondo la disponibilità di prodotti spesso effimeri, specie se spontanei. Per accompagnarli c’è una carta dei vini corposa e stimolante, composta di 1200 referenze in gran parte sarde, con un’attenzione particolare per i vitigni autoctoni e le piccole cantine, selezionate dal sommelier Francesco Tuveri.
I Piatti
I pani sono straordinari: il civraxiu della casa, preparato con lievito madre e una farina macinata a pietra nel piccolo mulino del paese vicino, come il carasau artigianale di Ovodda. Fra gli appetizer il carciofo scottato a bassa temperatura con bottarga fatta in casa, il reale di manzo con crema di sesamo agrodolce che ricostruisce una sensazione vellutata di tonnato e la chip di tapioca.
Il gelato di cipolla di Campidano con ricciola di fondale affumicata, prosciutto croccante e misticanza è una girandola di contrasti, termici, di consistenze e gustativi. “Risale al 2003, ma non riesco a toglierlo dalla carta. Il pesce può essere muggine o aguglia, leggermente affumicato con una segatura di leccio, albero tipico della Sardegna, che aromatizza in modo dolce e delicato, con un esito quasi di vaniglia”. Dove l’affumicatura è tradizione (si pensi al pecorino), con un ricordo di falegnameria.
Squisite le orziadas croccanti con crema di patate al prezzemolo e limone, dove gli anemoni di mare, in carta solo nella bella stagione per le difficoltà della pesca, sono croccantati in un misto di semola di senatore Cappelli e alga nori, per spingere lo iodato, fino a sembrare cervella nelle testure e nella mineralità. Sul piatto con una classica crema di patate di Gavoi e prezzemolo dell’orto, mandorle sarde per il croccante e scorza di limone a rinfrescare.
Oppure il polpo servito con pancetta di maiale leggermente affumicata, cotta per 48 ore a bassissima temperatura e arrostita, su una crema di semi di girasole con guarnizione di funghi. Una ricetta nata dalla similitudine fra le testure dei tre elementi, dove il mare si intorbida di terra, come nel pesce crudo innaffiato di brodo di pecora.
Il cannolo di “pasta” di pomodoro è un cannocchiale puntato su due eccellenze territoriali: la carne dei cavallini selvatici proposta come tartara di controfiletto o scamone e il caso axedu, cagliata di giornata ricca di siero acidulo, messa da parte dal pastore al momento della caseificazione come colazione del giorno dopo. Ma degli animali, che vengono scaricati interi sul bancone del S’apposentu, si utilizzano tutti i tagli: un pungolo costante per la creatività.
I ravioli di anguilla affumicata in brodo di cipolle destano sensazioni orientali, quasi di dashi. “Ma l’anguilla insieme al muggine è forse il solo pesce veramente presente nella tradizione gastronomica sarda, che trascura il mare”. Come sempre pulizia e riduzione, con le erbe dell’orto per la fragranza e la stagionalità.
“Invece i ravioli di maialino sono nati per errore. Facevamo il porceddu a bassa temperatura, poi arrostito, ma un giorno il cuoco ha sbagliato temperatura e la carne è uscita stracotta. Anziché buttarla ho pensato di ricavarne una farcia con l’aggiunta di un formaggio di giornata morbido e neutro”. Il condimento è la gelatina del maialino stemperata nel brodo vegetale con pecorino fresco e spezie; la pasta una sfoglia tutta tuorli preparata con semola mista a granito, per un esito croccante.
Cook it raw: gli spaghetti sono conditi con un pesto piccante, si direbbe quasi senapato di rucola selvatica e una battuta di bue rosso di Montiferru, razza sardo modicana dalle carni consistenti e gustosissime.
Fra i secondi il rotolo di coniglio della casa arrostito tipo porchetta con una salsa alle olive e al fegatino, gusto cacciatora, e le animelle marinate nel succo di limone e arrostite sul carbone, come molte carni. Vengono servite con un sorprendente crauti isolano di verza. “Perché in Sardegna fermentare gli ortaggi era tradizione, prima che si affermassero i sottaceti. Il gusto era puro, l’acidità elegante”.
Imperdibile il dessert al caraganzu, crisantemo selvatico che in Sardegna è diffusissimo, praticamente infestante. “Ricordo che da bambini quando giocavamo all’aperto pelavamo le cimette ed erano aromatiche e dissetanti. Poi un giorno un cuoco giapponese mi ha portato semi tipici del suo paese, spiegando che la pianta veniva usata nelle fritture e condita con la soia. Ma era il caraganzu, tanto che mio padre, che l’aveva piantato, mi ha detto: bastava scendere in cortile. Da noi si dice ‘bello come il caraganzu’ di ciò che è brutto, ma io volevo riscattarlo. Quindi il gelato ottenuto dall’infusione dei fiori nel latte di pecora, che essendo grasso non necessita di panna aggiunta, e la spugna delle foglie su una terra di cacao”.
La fotografia di copertina è di Valentina Cardia
Indirizzo
Ristorante S’apposentuVico Cagliari 3 - 09020 Siddi(VS)
Tel. +39 070 9341045
Mail: info@sapposentu.it
Il sito web del ristorante S'Apposentu