Mentre il Park Hyatt compie vent’anni, si consolida la cucina del giovane chef Guido Paternollo, alla testa del fine dining Pellico 3 e dell’intero food dell’albergo milanese. Ingegnere (e nuotatore) mancato, ha dirottato la sua mente progettuale per tre stelle italiani e francesi, fino a schizzare una cucina dall’impronta classica che stupisce.
Lo chef
Ci sono camere che si affacciano sulle volte e gli affreschi della Galleria Vittorio Emanuele II, ma è in generale tutta l’atmosfera dell’hotel Park Hyatt, ospitato in un edificio storico dietro il Duomo, schizzato a fine ‘800 da G. B. Torretta per il marchese Alessandro Fiori, a condensare una milanesità borghese e agiata, che la recente ristrutturazione ha rilucidato a puntino, squadrando i volumi del razionalismo negli interni dai materiali pregiati.
Sotto l’iconica cupola va per la maggiore un’altra icona, ma rettangolare: il club sandwich, fra i migliori in circolazione. Poi i sentieri si biforcano fra il Mio Lab Cocktail Bar e il ristorante fine dining Pellico 3, cui sovrintende, come a tutto il food della struttura, un ragazzo poco più che trentenne, dalla biografia a lietissimo fine.
Certo non è stato facile per lui, raccogliere nel 2021 l’eredità di uno chef già affermatissimo come Andrea Aprea, qui di casa per dieci anni, con le stelle d’ordinanza. Ma il coraggio a Guido Paternollo non è mai mancato. Milanese purosangue, scarrozzato per ristoranti dai genitori gourmet, ma affaccendati in tutt’altro, si è appassionato di fornelli durante il liceo, quando ha iniziato a invitare gli amici a cena nel fine settimana. “E così mi sono reso conto che mi piaceva parecchio, ho iniziato a seguire i programmi del Gambero Rosso, come la Cucina Circolare di Igles Corelli, e a leggere le riviste di mia madre. Restavo convinto di voler frequentare l’università, così dopo il diploma mi sono iscritto a Ingegneria Meccanica, svolgendo stage e tesi alla Ducati. Lì ho realizzato che quel lavoro non mi faceva impazzire e ho deciso di svolgere piuttosto il master in Ingegneria Matematica. Ma non è bastato. Ho chiesto ai miei sei mesi sabbatici per capire se la mia strada fosse un’altra e fare uno stage in cucina. Erano perplessi, ma hanno acconsentito”.
La fortuna ha voluto che uno dei tanti curriculum spediti o portati negli stellati di Milano e hinterland finisse nelle mani di Enrico Bartolini, il quale proprio in quel momento stava traslocando dal Devero al Mudec. “E non mi capacitavo che mi avessero preso, cosicché tempo dopo chiesi loro perché e mi risposero: ‘Se hai avuto la forza di laurearti in ingegneria e poi cambiare, ti impegnerai sicuramente’. È vero che mi mancavano certe abilità, ma avevo già letto tantissimo: tutto Modernist Cuisine, Hervé This, Harold McGee”. Dopo tre mesi era già assunto quale capopartita agli antipasti, prima di girare tutte le partite nell’arco di un triennio, fermandosi lungamente ai secondi.
È stato proprio Bartolini a suggerirgli di perfezionarsi in Francia. Sulla sua lista c’erano due nomi: Marc Veyrat e Yannick Alléno; ma non conoscendo il francese, è stato dal primo che ha iniziato, in una brigata tutta italiana. Finita la stagione, l’ha richiamato il Pavillon Ledoyen, dove si è fermato per due anni e mezzo, fino al marzo 2019. E ancora il Plaza Athénée di Alain Ducasse e Romain Meder, fino alla rescissione del contratto. “Quando sono rientrato a Milano, pensavo fosse una tappa prima di ricongiungermi a Meder. Invece Bartolini mi ha avvisato che al Park Hyatt stavano cercando un ragazzo che avesse voglia e testa. Io non mi sentivo all’altezza di ricoprire un ruolo del genere, ma ho deciso comunque di rompere il ghiaccio”.
La cucina
Oggi Paternollo fa la sua cucina, che definisce classica e votata al piacere, stagionale, contemporanea, mediterranea. “Alléno è stato probabilmente lo chef che più mi ha influenzato nel modo di concepire il piatto, incentrato sulle salse come elemento legante. Qualcosa che mi ha toccato molto, per quanto l’esperienza sia stata durissima. Ma con riferimento alla ricerca dell’ingrediente, sono particolarmente grato a Enrico Bartolini, cui tuttora mi ispiro quando preparo un risotto o mi rapporto ai giovani cuochi, che lui sa selezionare e far crescere. In cucina sono molto democratico e cerco di ascoltare i suggerimenti di tutti. La mia formazione mi aiuta nella gestione quotidiana, perché l’ingegneria è problem solving, attraverso la sistematicità e l’organizzazione. Poi la cucina secondo me deve essere innanzitutto buona; più che mai in un albergo deve piacere agli ospiti, che sono sempre stati riveriti nei tre stelle che ho girato”.
Il lavoro non è poco, perché ogni giorno la brigata rifà quasi tutta la linea, per quanto la carta sia breve, con appena tre opzioni per comparto, un menu di 5 corse attinte dalla carta a 130 euro e un altro, intitolato “20 anni a Milano”, con i classici cittadini reinterpretati. Ed è bellissimo fare la spesa in città, presso le numerose realtà dei piccoli produttori e degli artigiani vicini o nel mercato del pesce più importante d’Italia. È compito della direttrice di sala Giusy Chebeir far sì che i percorsi si incastrino, mentre ai vini sovrintende al momento Valeria, forte di una cantina prestigiosa e folta, ricca di Champagne e grandi toscani.
I piatti
L’inizio è sotto il segno di un elegante equilibrio: la tartelletta tiepida di frolla al mais con barbabietola affumicata, caprino, gel di scalogno e caviale intesse note iodate che si prolungano nel fumé. Deliziose anche la cialda di alga con granchio, panna acida e gel di salsa ponzu e l’altra tartelletta di grano saraceno con caponata di melanzana e cacio e pepe, un’epitome di italianità. Cambia registro quale benvenuto la foglia di shiso in tempura con maionese di sedano, panna acida, gel di aceto alle ortiche e uova di lucioperca, che vira verso il giapponismo. “Perché già da Bartolini il sous chef di Remo era giapponese, e quando a Parigi stava per aprire Abysse, al Pavillon facevamo noi le preparazioni del pesce; poi nei giorni di riposo aiutavo spesso lo chef Yasunari Okazaki”. Né manca la tendenza vegetale, protagonista di un’insalata di verdure di stagione cotte e crude con i loro condimenti.
“Un piatto nato come amusebouche più ridotto, condito dalla sola emulsione di lime e miele di castagno. Piaceva a tutti, ma non si prestava ad aprire il pasto con le bollicine. Quindi ne ho tratto una corsa con erbe, ortaggi e frutta di stagione, quelli che mi mandano i miei fornitori. In tutto sono 48 elementi sempre diversi, con l’emulsione, un olio verde, il pesto di crescione e la maionese di prezzemolo. Possono essere crudi o cotti, secondo la stagione e il modo in cui si esprimono al meglio, su una palette di temperature tiepide che non pregiudica le foglie, più quinoa e grano saraceno soffiato per il crunch”. Ottime poi le sardine marinate e leggermente scaldate alla salamandra, servite con il cuore di pomodoro, che si scioglie in bocca, cappelletti di sardina affumicata e rucola.
Un piatto dalla struttura originale, dove la pasta funge da contorno di un antipasto. “Adoro il pan con tomate spagnolo, spesso guarnito di acciughe marinate. Quindi volevo accostare ai pomodori un carboidrato, che spesso manca negli antipasti italiani, e ho pensato a una piccola pasta ripiena, con la rucola per l’amaro e il piccante”. Il filo acido prosegue nei tortelli di ricotta di pecora con ‘nduja e riduzione di melagrana. “L’idea era il gusto del maiale in agrodolce, ma usando la ‘nduja. Quindi un succo di melagrana zuccherino e acidulo e per smorzare il piccante, la morbidezza di una ricotta intensa. Più salsa barbecue agrodolce e acetosella”.
Poi lo spaghetto acido, cotto in estrazione di pomodoro, mantecato all’olio e condito con un’emulsione di fumetto ristretto e riduzione di acqua di vongole, lingue di vongole e calamaretti spillo ad arrotondare, polvere di pomodoro e crema di pomodori confit. Tutto nel ricordo di uno spaghetto con le arselle, scarpettato in un ristorante toscano con una fetta di pane al pomodoro.
L’animella croccante, perché spadellata previa infarinatura nel burro chiarificato, è servita con un contorno di finferli e albicocca alla verbena e Vin Jaune, vero protagonista del piatto. “Siamo partiti dall’idea di congiungere un fungo che sa di bosco, leggermente legnoso, con la dolcezza del frutto, la nota ossidativa del Vin Jaune e la freschezza della verbena. Poi abbiamo provato diverse proteine, anche la triglia, e un ragazzo in brigata ha suggerito l’animella”.
Dopo il predessert di sorbetto di banana al lime, la tarte fine di fragole è sottile come promette: appena velata di frangipane sulla sfoglia, feticcio dello chef, esalta il frutto, con il side dish di gelato al fiordilatte di capra, gelatina di fragole e fragoline di bosco.
Contatti
Pellico 3 Milano al Park Hyatt
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