Pino Cuttaia presenta la nuova Madia di Licata: un contenitore prezioso, arredato con materiali naturali, dove i diversi saperi vengono posti al servizio dell’artigianalità.
Il progetto
Pareva da tempo che Pino Cuttaia dovesse lasciare lo storico ristorante di Licata, un po’ risicato per la sua grande cucina. A sorpresa, invece, ha presentato un locale interamente rinnovato, di cui colpisce la coerenza con la proposta gastronomica intima e imperfezionista. Comprende una sala in più, materiali naturali quali legni, marmo cipollino spazzolato e ferro trattato con una tecnica speciale, per esaltarne la natura più calda.
Il pavimento è in legno di rovere resinato, mentre le poltroncine in pelle color mandarino firmate Patricia Urquiola bordano tavoli rotondi ammantati di lino, fra lampade simili a canne da pesca, che evocano le atmosfere del Mediterraneo. A dividere gli ambienti imponenti armadi bifacciali in radica di olmo con finitura opaca, che reinterpretano in modo contemporaneo un elemento tradizionale.
“Nell’arco di 25 anni la Madia è stata più volte ristrutturata. Ora abbiamo rilevato un negozio a fianco, rendendolo comunicante. Ma non abbiamo aumentato i coperti, piuttosto abbiamo distanziato i tavoli per massimizzare il comfort. Il fine non è ostentare, ma mettere a proprio agio il cliente. Il concetto è quello di una ristorazione che diventi casa, perché la mia cucina è al tempo stesso rassicurante e disarmante, composta com’è di ingredienti comuni. L’aglio e il prezzemolo che raccontano il mare, il basilico che racconta il pomodoro.
Voglio che entri nel quotidiano, oltre l’esperienza, restando accessibile sotto il profilo dei sapori e della comprensibilità. Quindi con l’architetto Fatima Costa abbiamo creato arredi materici composti di tre elementi, legno, marmo e ferro. Ci sono due grandi madie che evocano il nome del locale, ispirato alla rivista: l’idea di un contenitore di idee, sapori e persone. L’architetto Fatima Costa è stata molto brava nella scelta dei colori, nero e riccio, con il mare evocato naturalmente dal marmo, che rimanda alle miniere di sale”.
“I ristoranti sono contenitori che a volte possono risultare non personalizzati. A me fin dal primo momento questo è calzato come un vestito su misura. E dall’ambiente nascono anche i piatti e lo stile. La mia cucina continua a ricercare sulla stagionalità, lavorando con piccoli produttori, pescatori e contadini. Anche quando vado dal barbiere, difendo e sostengo il lavoro artigianale, in un territorio dove ancora c’è questo sapere, che secondo me va protetto. Mi piace dire che la ristorazione è la sintesi di tanti mestieri. Mio figlio ha appena dato la maturità e gli ho detto: ‘Anche se farai ingegneria, ricordati che quando il cliente si siede a tavola, è predisposto all’esperienza, ad ascoltare e apprendere. Ecco perché nei nostri luoghi entrano sempre più mestieri possibili, comprese l’informatica e l’intelligenza artificiale guidata dall’uomo’.
Questo sta diventando il nostro mondo: contemporaneo e super tecnologico, ma alla base c’è sempre l’artigiano. E questo è il grande fascino. I piatti nuovi non mancano, perché la cucina è sempre in evoluzione. Alcune volte si cambia il contenitore e non il contenuto, come una cover, se la composizione è ancora contemporanea. Da poco invece è nato un cocktail anni ’80 scomposto, anche se non mi piace la parola, dove anche lo scarto diventa cibo e la cucina chiude la sua circolarità.
La Spagna ci ha insegnato che un modo di fare diverso non rappresenta necessariamente un errore, cosicché oggi trasformiamo la pelle di pesce in cialde e dalle interiora della seppia ricaviamo naturalmente il vero spaghetto, come un ramen. Il cuoco cresce sempre insieme ai suoi ingredienti, che man mano vede in modo diverso, si tratti di seppia o di patata. Una volta a 50 anni era considerato al tramonto, mentre oggi è energico, ha il sapere che utilizza in tutti i sensi e fa vivere al cliente”.