Prima di entrare nell’olimpo dei cuochi americani, Kwame Onwuachi ha avuto una vita avventurosa e a tratti disastrosa, dai problemi di dipendenza al fallimento del suo primo ristorante. “Per me il successo è poter fare ciò che amo, un giorno dopo l’altro. Non si tratta di soldi o di premi”, è la lezione che ne ha tratto.
La storia
Dal 2015 in avanti, la carriera di Kwame Onwuachi somiglia a una cavalcata trionfale: ha impressionato nelle vesti di candidato durante la tredicesima edizione di Top Chef e poi come giudice dello show Bravo, nel 2019 ha incassato il premio Rising Star Chef of the Year della James Beard Foundation e nel 2023 il suo Tatiana, presso il Lincoln Center, si è classificato primo fra i ristoranti di New York secondo Pete Wells sul New York Times. Nel frattempo, ha scritto un bestseller, Notes from a Young Black Chef, che presto sarà un film, e un ricettario, Recipes from a Young Black Chef. Senza dimenticare l’anno trascorso come cuoco privato di Rihanna e la borsa di studio a suo nome presso il Culinary Institute of America.
Prima di quella data, tuttavia, non sono mancate le disavventure. Cresciuto nel Bronx e iniziato alla cucina dalla madre, che lo ha messo subito all’opera nel suo catering, Onwuachi ha avuto in gioventù problemi di disciplina a scuola, prima di trasferirsi per due anni in un villaggio nigeriano con il nonno, professore di studi panafricani. Qui ha familiarizzato intimamente con il cibo, allevando il proprio pollame. “Non tutto arriva dentro una pellicola di plastica, c’è una vita dietro”, ha realizzato, raccontando la sua vita a Robb Report.
Soprattutto ha imparato a osservare il mondo con lo sguardo antropologico, che oggi usa ai fornelli, miscidando la cucina americana e perfino lo street food del Bronx con nostalgie africane e giamaicane. Al suo ritorno, dopo una crisi di pianto da KFC e un lavoretto da McDonald’s, è quindi caduto nella spirale delle dipendenze, per cui è stato espulso dall’università. Ma ha anche venduto caramelle nella metropolitana ed è stato un barista impacciato con la macchina da caffè. Fin quando l’elezione di Barack Obama nel 2008 non gli ha fatto realizzare che anche il suo riscatto era possibile.
I suoi primi guadagni li ha usati per diplomarsi presso il Culinary Institute of America, dopo di che è stato in stage da Eleven Madison Park e Per Se, dove racconta di essersi scontrato col razzismo latente nel settore. “È qualcosa che affronto ogni giorno. C’è sempre questo richiamo al colore della mia pelle, indipendentemente dalle circostanze. C’è ancora. Ma non mi faccio toccare, anzi mi sento ancora più motivato. Allora mi abbandono più che mai al mio essere nero”.
Perfino il suo primo ristorante, Bijou a Washington, è stato un fallimento, ma oggi tutto è cambiato. “Per me il successo significa poter fare ciò che amo, un giorno dopo l’altro, e vivere di questo. È così semplice. Quando ero un cuoco di linea, mi sentivo di successo. Non si tratta di soldi o di premi, sono cose superficiali. Tatiana è qualcosa di profondamente intenzionale, nel senso che sono di New York e sto tornando a casa. È la mia lettera d’amore per la città”.