Finalmente la grande occasione per uno dei migliori chef italiani under 40: al Lume la fiammata di un’originalità irriducibile, schermata dal paravento di forme fuori dal tempo.
La Storia
La Storia del Ristorante Lume
Chiari i pavimenti, bianchi le pareti e il soffitto, bianca la scatola in merletto della cucina, bianche le tovaglie, le sedie e le porcellane, immacolate le divise dei cuochi. Somiglia a una cleanroom il nuovo ristorante di Luigi Taglienti, ubicato in quello che una volta era lo stabilimento Richard Ginori alla periferia di Milano. Sterile attorno ai gesti bianchi dello chef: purezza, precisione e dettaglio.
Lo ha voluto così, Taglienti, insieme a MB America e all’architetto Monica Melotti, nell’arco di un anno dedicato alla sua definizione. Giunto infine alla grande occasione dopo un percorso esemplare. “Sono nato a Savona, e sono nato cuoco. Forse perché mia nonna Ernestina era bravissima ai fornelli, come la bisnonna, che cucinava per le antiche casate fiorentine, seppur a livello amatoriale. Mia mamma per 15 anni ha tenuto uno stabilimento balneare, dove portavo avanti il bar. Così un giorno mio zio mi ha preso di peso e mi ha portato a Finale Ligure perché mi iscrivessi all’Alberghiero. Non ero molto bravo a scuola, ma la pratica mi divertiva e vedevo che le cose mi riuscivano bene. A farmi capire che era possibile cucinare diversamente è stata un’esperienza da commis alla Meridiana di Garlenda. Ho sentito che mi si poteva aprire un mondo e da quel momento ho avuto la fortuna di incontrare dei maestri. Ezio Santin innanzitutto, un autodidatta e un sognatore, che ha scritto una grande storia di artigianato e di amore. In cucina mi ha trasmesso il rispetto dell’ingrediente e la ricerca della semplicità in composizioni che si collocano fuori dal tempo”.
“Anche Pierangelini mi ha folgorato, fino a che punto lo sto capendo solo adesso: ero giovanissimo, carico di presunzione e di voglia di imparare; invece ho capito che la cucina è gestualità, significa muoversi in modo naturale ed esprimere spontaneamente il proprio pensiero, che focalizza la tecnica opportuna. E poi la Francia, dove mi ha mandato Carlo Cracco. Alla Palme d’or ho imparato la disciplina di un grande ristorante e come muovermi in una brigata numerosa. Ho incontrato due grandi teste, Christian Willer e Christian Sinicropi, che mi hanno mostrato come gestire il prodotto, perché da un pomodoro possono nascere milioni di cose. Mentre nel 2004 da Cracco-peck ho scoperto l’eleganza di chi aveva compiuto un percorso simile al mio”.
“Nel 2005 è arrivato il primo incarico da chef, di nuovo alla Meridiana; nel 2007 il secondo alle Antiche Contrade, dove ho ottenuto la stella, ho iniziato a sperimentare e a perfezionare le salse. Poi il Trussardi alla Scala e la consulenza a Palazzo Parigi. Prima di approdare qua, in un ristorante nato con me. Non tutti i cuochi hanno la fortuna di poter definire ogni dettaglio del proprio locale, dal primo ingrediente all’ultima posata. Progettando anche la cucina, che non abbiamo aperto, come fanno tutti, ma depositato in sala: un blocco unico con piastre a induzione ipertecnologiche, che raggiungono i 350 °C, ma non disperdono il calore oltre i 2 cm, e al centro una plancha elettrica, simile a un fourneau, su cui lavorare a contatto o mediante casseruole. Qualcosa di essenziale, come il mio stile, che coniuga l’innovazione alla gestualità primordiale del cuoco”. Dietro lo spazio per la finitura ci sono il laboratorio per la pasticceria e la panetteria, dove avvengono anche le sperimentazioni, i ripiani per le prime lavorazioni e le celle. Mentre a fianco due aree eventi possono accogliere fino a 1000 persone su altrettanti metri quadrati di superficie.
Chateaubriand di manzetta piemontese servito con pomodoro provenzale, patata castello e salsa bernese
In tavola la koinè fra la Liguria e la vicina Francia è naturale: vi si originano le basi, intere ricette, come l’iconica lièvre à la royale, soprattutto la primazia ritrovata dell’istituzione salsa, talvolta perfezionata attraverso tecniche di estrazione a freddo targate Alléno. Ma rivieraschi sono anche molti ingredienti (tutto il pesce, la maggior parte delle verdure, l’extravergine da olive taggiasche), i profumi delle erbe, sviscerati per via tecnologica ma senza esibizionismi, nonché il lampo abbagliante degli agrumi. Quei limoni di Monterosso di cui scriveva Eugenio Montale, ingrediente feticcio dello chef.
Musetto di vitello cotto a lungo nello spumante macedonia di verdure in mostarda dolce, cetriolo e tartufo nero
L’acidità, allora. Pochi cuochi riescono a cavalcarne l’impennata con simile maestria, quasi fosse imbizzarrita. “Adesso mi dicono sia moda, ma sono anni che ricerco su questo: come calibrarla in modo da poter rinunciare all’esaltazione di sapidità, eliminando praticamente il sale”. E sono di nuovo francesi gli assi di una cucina, quadrettata sull’agro, sul dolce e sul grasso, la cui opulenza libertina spadroneggia in diversi piatti. Al punto da configurare un gusto per omissione, anziché per sottrazione, dove la sapidità è praticamente assente e l’amaro viene ridotto ai minimi termini. Un po’ come una sedia a tre gambe, instabile nell’arco del menu. Che si tratti di ispirazioni classiche, amputate del consueto fondamento nella moderazione, regionali o italiane, mai cadono le lame del rasoio di cui parlava Picasso a proposito di buona pittura. Taglienti: un nome che è un destino, per quello che va ormai considerato un fuoriclasse della cucina italiana.
Sul piatto gli elementi sono pochi, talvolta appena due e giustapposti in incastri ortogonali, che mettono a nudo il moto cartesiano del pensiero. Mentre il menu si muove a gomito, per una sequenza di eccessi che si giustificano a vicenda, senza che a scapitarci sia l’eleganza complessiva. Può essere ardito e personale oppure legato al territorio, in due formule al prezzo di 150 e 120 euro. Per accompagnarli c’è una carta dei vini da 400 etichette, che affianca ai blasoni bottiglie tutt’altro che scontate e di forte personalità. È agile, in parte stabile, in parte stagionale, per entrare in sintonia con la carta, con due percorsi flessibili sui degustazione, tanta Francia e Champagne, numerosi naturali. “I vini li assaggio con il sommelier Andrea Petraroli, cercando di coprire le acidità con l’aromaticità e il carattere, e può capitare che così nasca anche un piatto, per esempio il pollo di Bresse sul Petit Beaufort, una bollicina defaticante”.
I Piatti
Scampi liguri appena scottati alla plancia, battuto di pomodoro in salsa Vierge e biscotto genovese al basilico di Prà
Si comincia con la tartelletta di insalata russa e aragosta; la cialda acidula preparata con lo scarto del lievito madre, disidratato, polverizzato, impastato e planchato; il delizioso ravanello in trompe-l’oeil, appena scavato sulla circonferenza per uno strato di burro montato alla maggiorana, in equilibrio grasso-piccante: classicità e Liguria. Poi il cocktail di gamberi servito su una cialda di riso alla crema di lattuga che riproduce le forme e il crunch di un cuore di insalata, più la salsa Aurora classica, i gamberi bianchi di Santa Margherita, arancio e limone. Il leitmotiv del pasto.
Acqua, olio, limone e liquirizia è spiazzante: sembrerebbe un intermezzo, ma è un “antemezzo” che resetta il palato con la liturgia di un battesimo e rinnova il rito dell’extravergine a inizio pasto, tappezzando lo stomaco. Quindi ingredienti primari a diverse temperature fredde, con un ricordo ironico di gelato estivo, le scaglie di olio abbattuto a – 40 °C, per sviluppare consistenze cangianti ai tempi delle texturas e preservare una fragranza che si sprigiona in bocca, il sale croccante e la balsamicità della radice.
L’elegante Bianco e nero di seppia è una diversione dello spaghetto: lo compongono la panna cotta ai ricci di mare, straordinariamente cremosa e quasi montata grazie alle temperature di preparazione, per un ricordo di Piemonte; la sfoglia di seppia frullata, parzialmente al nero, “per riassumere una gestualità italiana”; lo spaghetto soffiato e l’olio al peperoncino, sopra una base di concentrazione citrica a base di cinque agrumi (limone, lime, pompelmo rosa, pompelmo giallo e chinotto), che sbalza la soavità del piatto.
Poi ancora gamberi bianchi, appena intiepiditi sotto la salamandra, serviti in una fresca insalata con cocomero, capperi, chinotto e un’emulsione di mandorle che sembra meringa, ma inonda man mano il piatto come latte. Quasi un ricordo involontario dell’ostrica virtuale: praticamente un gambero semi-virtuale.
Altro feticcio dello chef è l’ostrica, una Gillardeau ridotta in crema con poco limone e spolverizzata di Castelmagno d’alpeggio. Dove lo chef aggiunge e toglie sapidità in quel che in bocca è un monogusto e in testa un paradosso, ricongiungendo fondali e cime alpine per la mediazione dei sentori erbacei.
Segue la svolta a gomito: tutta testura, anzi similitudine fra testure, l’aragosta con lumachine bianche à l’ancienne, delicatissime e dolci. Un piatto binario anche nei condimenti, con il fondo tradizionale ligure di animelle, poppa e frutta secca, preparato secondo la ricetta di nonna Ernestina, e il tamarindo per l’acidità, la profondità, la sovrapposizione cromatica. Mentre l’anguilla è una parodia della brace, dove la brace non c’è. Tenace e polposa, cuoce al vapore, “perché il grasso è nella sua natura”, prima di salire su una scala di acidità: il condimento di limone verde e pepe nero selvatico, fresco e balsamico; la suprême con la purea sempre di limone alla base. Per un effetto di vertigine.
Evoca un primo ligure il pansotto in absentia, con la sua salsa di burro (in realtà latte emulsionato, che però impasta come un grasso), noci e foglioline di maggiorana, per l’acidità, il balsamico e anche la pulizia meccanica. Dolce come una pasta. Ma spingere al massimo in una direzione consente a Taglienti di imboccare quella opposta con pari decisione. Vedi il mezzanello del Pastificio dei Campi con pelato San Marzano al naturale, basilico e l’ubiquo gel di limone, tutto spigoli e masticazione, senza un goccio d’olio dopo la massima untuosità.
Petto e coscia di quaglia rosolata in tegame all’italiana, uva di corinto, spinacio stufato e sugo piccante di quaglia al finocchietto selvatico
Centrato anche il piccione con il filettino crudo, il petto à la coque e la salsa di rosmarino, vera protagonista del piatto, ottenuta per microfermentazione, funzionale all’effetto salamoia, ed evaporazione a bassa temperatura, fino a evidenziare note tanniche e quasi piccanti sulla succulenza della materia.
La pasticceria è sotto il segno dell’umconfort. Prima lo strepitoso sanguinaccio di pesce, con le carcasse di tonno, acciughe, palamita lasciate ossigenare finché non rilasciano la loro parte sanguinolenta. Il liquido, ferroso e persistente, viene prontamente abbattuto per evitare fermentazioni e poi ingentilito dai classici ingredienti del sanguinaccio di maiale: cioccolato, agrumi, pepe e alcolici, fra cui Marc de Champagne, per un richiamo al sangue nella Lièvre à la royale. Ma in coda riemergono ferro e iodio, con un ittico tenace.
Segue la Cipolla oro, in osmosi di succo di maracuja, acida oltre ogni memoria sensoriale, “sbucciata, impreziosita e rivestita d’oro, in omaggio al soffritto all’italiana”. Un principio traslato a fine pasto. L’ultimo testacoda è per la crema di banana alla brace, effetto caramello, con melanzana cruda e caviale: quasi il reverse dell’acidità che la precede.
Indirizzo
Ristorante LumeVia G. Watt 37 - 20143 Milano
Tel. +39 02 80888624
Mail: restaurant@lumemilano.com
Il sito web del ristorante Lume