Lo scorso 19 giugno, a Torino, si è tenuto The World’s 50 Best Restaurants 2025, uno degli eventi gastronomici più prestigiosi al mondo. Il Consorzio del Parmigiano Reggiano, partner ufficiale, ha sostenuto la 50 Best Restaurants Scholarship, una borsa di studio dedicata a giovani chef con meno di tre anni di esperienza, che offre la possibilità di formarsi in due ristoranti di eccellenza: El Celler de Can Roca a Girona e SingleThread a Healdsburg, noto per la sua filosofia sostenibile.
*Contenuto con finalità promozionali
Angélica Ortiz: vince 50 Best Restaurants Scholarship 2025
La vincitrice di quest’anno è Angélica Ortiz, 33 anni, chef colombiana del ristorante Oxomoco di New York.
Abbiamo avuto il piacere di intervistarla per approfondire questo importante traguardo e la sua esperienza da finalista.
Ci piacerebbe cominciare chiedendoti qualcosa sulla tua storia: prima il tuo impegno politico per una società più giusta, e poi il passaggio al mondo della cucina. Puoi raccontarci com’è avvenuta questa transizione?
Ho studiato Scienze Politiche all’università, spinta dal desiderio di cambiare il mondo. Per dieci anni ho lavorato come politologa in diversi ambiti, sia nel settore privato che in quello pubblico. concentrandomi sul lavoro comunitario e sulla ricerca sociale come strumenti per promuovere la partecipazione cittadina e l’uguaglianza di genere. Sono arrivata a far parte del governo di Medellín, la mia città, guidando la Secretaría de las Mujeres, un ufficio pubblico che si occupa di promuovere l’uguaglianza di genere. E anche se sono molto orgogliosa di ciò che ho realizzato, è arrivato un momento in cui ho sentito il bisogno di un cambiamento nella mia vita, di trovare un modo di abitare il mondo in cui la creatività avesse un ruolo centrale e in cui il rapporto con le persone potesse essere più caldo e gioioso rispetto a quello della politica, che può essere molto faticosa.

Ciò che mi aveva sempre appassionato di più era la cucina, solo che non avevo mai pensato che una persona come me, senza provenire da un contesto di ricchezza o privilegio, potesse dedicarsi seriamente a questo. Ho iniziato così a frequentare la scuola di cucina di sera, dopo l’ufficio, e sono riuscita a diplomarmi come cuoca e pasticcera. Ho fatto parte di un gruppo di ricerca sulle cucine tradizionali colombiane, partecipando a un’indagine sulla cucina di Boyacá, una regione andina ad alta produzione lattiero-casearia che possiede l’unico formaggio stagionato della Colombia.
E secondo te, in che modo possono dialogare e incontrarsi questi due mondi, l’attivismo e la cucina?
Mi pongo sempre la domanda su come si possa cambiare il mondo partendo dalla cucina. Credo che le cuoche e l’industria dell’ospitalità abbiano un potere molto importante di trasformazione. Per le produttrici agricole, che si trovano ad affrontare l’impoverimento a causa dei prezzi ingiusti e dell’eccessiva intermediazione, possiamo creare catene di approvvigionamento dirette con chi lavora la terra e garantire l’acquisto a prezzi che riconoscano l’importanza del loro lavoro. Per le donne, che tradizionalmente ci occupiamo della cucina in casa e delle cucine tradizionali, ma troviamo barriere d’accesso, mancanza di riconoscimento e violenze di genere nelle cucine professionali. Per i nostri team di lavoro, trasformando gli ambienti professionali, spesso segnati da violenza, maschilismo, molestie ed exploitazione, in ambienti arricchenti, inclusivi, rispettosi e riconoscenti, che permettano un equilibrio tra vita e lavoro.

Per i nostri commensali, offrendo attraverso il cibo esperienze che trasformino la loro comprensione delle culture e dei territori, propri e altrui; che li aiutino a conoscere nuovi ingredienti e preparazioni da integrare nella loro quotidianità e, perché no, li invoglino a cucinare di più e meglio per sé stessi e per le persone che amano. Per la sostenibilità ambientale, promuovendo il consumo di ingredienti nativi e diversificati, contribuendo così a contrastare le mono-coltivazioni. Evitando lo spreco alimentare e contribuendo affinché ci si possa nutrir meglio senza distruggere il pianeta. Credo che cucinare possa mobilitare i sensi e l’immaginazione delle persone, cambiando letteralmente il corso delle vite umane. Cucinare è un atto molto potente: influenza il comportamento dei consumatori, il nostro rapporto con la natura, con la cultura e con il nostro stesso corpo. La cucina è al tempo stesso causa ed effetto dei valori di una società. Cucinare e mangiare dovrebbero essere un atto di ricerca di chi siamo e di chi possiamo diventare.

In realtà, seguo World’s 50 Best da molto prima di iniziare a studiare cucina. Mi è sempre sembrato che, più che una semplice classifica, fosse una finestra per scoprire cucine e luoghi del mondo che altrimenti sarebbero rimasti molto lontani. Quindi, quando ho visto l’annuncio sui loro social, non ho avuto dubbi. Mi ha motivata anche l’opportunità di riflettere e creare che tutto il processo della borsa di studio proponeva, al di là del risultato finale. Iniziare a lavorare nei ristoranti è difficile, e molto spesso il mestiere si concentra sulla ripetizione per acquisire competenze. E anche se questo è fondamentale, è altrettanto necessario avere spazi dedicati alla creatività.
Per il concorso hai proposto “Parma Sumercé”, un piatto originale che combina Parmigiano Reggiano, mais, canna da zucchero e cioccolato. Qual è l’idea alla base di “Parma Sumercé”? Come hai sviluppato il concetto del piatto?
Boyacá è la regione con la maggiore produzione di latticini e l’unica in Colombia a produrre un formaggio stagionato con denominazione di origine: il queso Paipa. Nel 2024 ho partecipato a una ricerca sulle cucine tradizionali di Boyacá, guidando il processo di sistematizzazione delle ricette condivise dalle cuoche tradizionali della regione. Da questa ricerca è nato un libro, “Cocinas Campesinas de Boyacá: Colombia Pa’ Sumercé”, che è stato premiato dai Gourmand World Awards.

Quando ho ricevuto l’invito a creare un piatto che mettesse al centro il Parmigiano Reggiano, ho pensato subito alla somiglianza tra questo prodotto e il mio territorio. Per questo ho voluto che il piatto racchiudesse la mia esperienza e conoscenza acquisita durante la ricerca in Colombia, proponendo allo stesso tempo un dialogo con l’Italia. Esplorando queste affinità, ho scoperto che sia in Colombia che in Italia è culturalmente importante interporre un pasto tra pranzo e cena. In Colombia, verso le cinque del pomeriggio, non si prende l’aperitivo, ma “el algo” o la merenda: un break intermedio, in bilico tra il dolce e il salato. Questo piatto combina elementi dolci e salati per evocare una commistione “spezzafame”.

D’altra parte, la cucina colombiana, come quella italiana, ha nel formaggio uno dei suoi protagonisti principali. Nelle regioni andine e caraibiche si produce in abbondanza formaggio fresco per il consumo quotidiano. Il quesito, la cuajada, il queso costeño sono ingredienti fondamentali in molti amasijos — pani o prodotti da forno tradizionali — che, grazie alla materia casearia, assumono consistenze umide e sapori complessi. La mia proposta è stata quella di arricchire uno di questi formaggi freschi con la complessità aromatica del Parmigiano Reggiano, creando un prodotto completamente nuovo: la cuajada di Parmigiano Reggiano. Questa è diventata la base dell’impasto e del ripieno dell’elemento principale del piatto: l’arepa boyacense, che è anche la mia arepa preferita. Ho cercato inoltre di mettere il Parmigiano Reggiano al centro non solo come ingrediente, ma anche come motore di trasformazione di altri ingredienti: nella stagionatura del tuorlo d’uovo e nella fermentazione del guarapo.

Voi finalisti avete avuto l’opportunità di immergervi nel nostro territorio, a partire dalla visita a un caseificio di Parmigiano Reggiano. Che impressione ti ha lasciato questa esperienza?
È stato un sogno che si è avverato. Ricordo chiaramente la prima volta che ho assaggiato il Parmigiano Reggiano: circa 6 o 7 anni fa, visitai il proprietario di quella che allora era l’unica bottega che importava prodotti italiani a Medellín, la mia città natale. Era appena tornato da un viaggio a Modena e ci offrì Parmigiano Reggiano e aceto balsamico. Fu una festa per il palato: la combinazione di sapori dolce, salato, amaro e acido, la consistenza morbida ma ricca di “cristalli umami”. Da quel giorno è nato in me un nuovo sogno: visitare Modena e poter conoscere e assaporare quei prodotti con il mio personale approccio sensoriale. Sono rimasta molto colpita dalla somiglianza tra Modena e Antioquia, la regione da cui provengo, anch’essa circondata dal verde delle montagne e dai colori delle coltivazioni.

Anni fa, guardando il primo episodio della prima stagione di Chef’s Table, dedicato a Massimo Bottura, mi colpì non solo la vastità dei magazzini e la complessità della produzione del Parmigiano Reggiano, ma anche la forza che questo prodotto, marchio e consorzio ha nel mobilitare il mondo culinario. Avere l’opportunità di conoscerlo da vicino, di vedere le persone che lo rendono possibile, di ascoltare la passione con cui portano avanti un sapere e una tradizione secolare, è stata un’esperienza davvero speciale. Mi hanno colpita molto anche i profumi che si percepiscono durante la visita: l’odore del latte dolce, che cambia man mano che inizia la fermentazione, ma che resta sempre invitante e stimola l’assaggio, fino ad arrivare all’intenso aroma fruttato che si sprigiona quando si apre una forma di Parmigiano Reggiano — un sentore unico, che si può cogliere solo in quell’istante.

Siete stati ospiti al Ristorante Cavallino di Maranello per il pranzo e avete concluso con una cena stellata a L’Erba del Re di Luca Marchini. Raccontami le tue impressioni sulla cucina e su come è stata valorizzata la materia prima, il Parmigiano Reggiano.
È speciale il modo in cui Riccardo Forapani e Virginia Cattaneo (rispettivamente chef de cuisine e co-chef dell’insegna sotto la supervisione creativa di Massimo Bottura) interpretano lo spirito della Ferrari attraverso la proposta del Cavallino: cucina “slow” e auto “fast”. La loro reinterpretazione dei classici della cultura gastronomica modenese è stata, per me, la prima occasione per sperimentare la maggior parte di quei piatti. Qualcuno mi ha detto che il primo tortellino che si assaggia diventa il metro con cui si giudicano tutti gli altri. E il mio primo tortellino è stato proprio quello di Bottura, cotto in brodo e servito con salsa al Parmigiano Reggiano: “il meglio dei due mondi”, potrei dire. L’Erba del Re è una proposta molto più irriverente e d’avanguardia, ma che ha al centro l’amore e il rispetto per il Parmigiano Reggiano. Sono rimasta molto colpita da una delle proposte del menu: un bombolone ripieno di crema al Parmigiano Reggiano con cioccolato fondente. Una combinazione di sapori audace e deliziosa, peraltro simile a quella che ho sondato nel mio piatto, Parma Sumercé.


Il 19 giugno a Torino, in occasione di The World's 50 Best Restaurants 2025, sei stata proclamata vincitrice di una borsa di studio che ti offrirà l’opportunità di formarti in due dei ristoranti più prestigiosi al mondo: El Celler de Can Roca a Girona e SingleThread a Healdsburg. Raccontaci cosa hai provato in quel momento.
È stato un momento davvero emozionante, perché fino all’ultimo non sapevamo chi avrebbe vinto. L’ansia e il pressing sono svaniti quando ho sentito pronunciare il mio nome e ho visto Jordi Roca sul palco — lui è uno dei miei più grandi riferimenti nel mondo della gastronomia da anni, e ricevere il premio direttamente dalle sue mani è stato incredibile.Dopo l’annuncio è arrivata un’ondata d’amore: la mia famiglia e i miei amici più stretti erano tutti collegati per seguire la trasmissione da Colombia e New York, e mi hanno mandato video pieni di lacrime e gioia. Ho ricevuto messaggi dalle mie insegnanti della scuola di cucina, dagli chef e cuochi con cui ho lavorato, e da persone che ammiro moltissimo nel ramo gastronomico.
Ultima domanda: cosa ti aspetti da queste due esperienze? Quali sono le tue attese su ciò che porterai con te nel tuo percorso professionale?
Uno dei primi passi della mia carriera come cuoca è stato fare uno stage al Café Mars, un ristorante che si definisce Italiano insolito a New York. È stata un’esperienza che mi ha cambiato la vita: non solo ho imparato moltissimo dagli chef, ma anche da tutto il team — durante i pasti condivisi, ascoltando il responsabile di sala e i camerieri, e al mattino, parlando con chi lavava i piatti. Per esperienza diretta, sono convinta che, anche se brevi, gli stage siano opportunità potentissime non solo a livello professionale, ma anche personale. Devo confessare che quella al Celler de Can Roca è l’esperienza che mi emoziona di più, perché nutro un amore speciale per la pasticceria e Jordi Roca è il mio punto di riferimento più importante. Mi ispira perché va oltre l’obiettivo comune della pasticceria — essere esteticamente impattante e gradevole al palato — per raccontare vere storie: storie di ingredienti, ricordi, territorio. Nel farlo, Jordi sfida le regole e si diverte moltissimo.

Quando frequentavo la scuola di cucina, ho ideato un piatto ispirato al suo gelato al tabacco: ho creato un gelato affumicato ispirato all’odore dei piccoli fuochi accesi dagli agricoltori lungo le strade di Sopetrán, il luogo dove la mia famiglia trascorreva le vacanze dell’infanzia, un odore che accompagna i viaggi in macchina sotto il sole cocente. Sarà un sogno che si avvera potergli mostrare quel piatto. Quanto a SingleThread, trovo molto ispirante il fatto che sia al tempo stesso un ristorante e una fattoria, e che si impegni a trasformare la produzione e la preparazione del cibo in risposta concreta al cambiamento climatico. Un concetto del genere sarebbe molto potente in Colombia, dove uno dei grandi problemi è che gli agricoltori sono tutt’ora completamente scollegati dai ristoranti, e viceversa. A volte gli agricoltori producono generi alimentari che non sanno come consumare, o che non trovano mercato; dall’altro lato, i ristoranti fanno fatica a reperire ingredienti che rappresentino davvero la ricchezza e la varietà dei territori, perché non sono commerciali e si perdono nelle catene di distribuzione.
