Riccardo Camanini continua a sorprendere nel suo ristorante Lido84 a Gardone di Riviera , centrando la coincidenza fra francesismi e origini.
La Storia
La Storia di Riccardo Camanini
“I costumi degli uccelli di Buffon, le mummie di Federico Ruysch in Fontenelle, il viaggio di Colombo in Robertson”: somiglia un po’ alla biblioteca di Leopardi, descritta da Calvino per spiegare cos’è un “classico”, la collezione di Riccardo Camanini. Mai troppo up-to-date nelle sue ispirazioni. “Di libri recenti ne ho tanti, ma mi trovo sempre a consultare quelli antichi. Carême, Escoffier, Brillat-Savarin; adesso è il momento di Apicio. Perché già il modo in cui sono scritte le ricette è suggestivo: al futuro. ‘Troverai questo sapore quando farai… e cuocerai…’ Griglie da riempire con l’immaginazione, né dettagliate né schematiche, ricalibrando i gusti”.
Ed è una delle più belle mangiate che si possano fare oggi in Italia, quella approntata da questo giovane interprete passato per gli insegnamenti di Gualtiero Marchesi, Raymond Blanc, Alain Ducasse e Jean-Louis Nomicos. Forse il più completo in Italia per conoscenza enciclopedica dei fondamenti (i brodi sono preparati secondo il prontuario di Escoffier), capacità creativa proiettata nel futuro, senso del prodotto, lavorato esclusivamente da fresco, e squisita manualità artigianale. Ha scelto di collocarsi pieds dans l’eau in riva al lago che incantò i romantici: un Mediterraneo minore, bordato di uliveti e limonaie ma a latitudini settentrionali, enclave del sentimento classico anche nelle architetture, che emulano il paesaggio ellenistico, le isole greche, l’Epiro. Non solo agone e missoltin: il territorio è anche questo.
Il rapporto qualità/prezzo è come sempre straordinario: il menu dei Classici conta 5 portate a 65 euro, con possibili percorsi di abbinamento a 25 e 40; l’Oscillazione da 7 corse ne costa 75, più gli stessi eventuali supplementi. Di nuovo ci sono le divise casual del personale di sala, coadiuvato da giovani cuochi, tutti partecipi e assunti; i pavimenti e i bagni di artigiani italiani, con le resine moderne sui decori antichi; i menu in puro cotone della cartiera di Toscolano Maderno e i piatti Richard Ginori, per una classicità nostrana. “Li usavo già da Marchesi: è una porcellana italiana che il cliente attento ama tantissimo, più importante come peso e approccio in tavola, oltre che nel prezzo. Riprende un classico tondo che non condiziona nell’atto di impiattare. E colora una tavola che richiede teatralità e non tristezza”.
Il percorso è più che mai in crescendo, ma si muove anche per categorie: dall’eleganza a una potenza letteralmente di ferro; dal purismo sempre più scarnificato allo spettacolo del servizio di sala, che attualizza coreografie d’antan. “Nei piatti più importanti cerchiamo sempre di abbinare il gusto al gesto, perché il cliente vuole vedere il lavoro artigianale e amiamo raccontare quel che stiamo facendo”. Con l’effetto di rivitalizzare anche l’appetito nelle fasi clou e nel finale. Fra i fuochi d’interesse del momento, oltre agli agrumi già citati, emblematici del territorio, ci sono sicuramente le frattaglie, mentre di burro se ne impiega sempre meno.
I Piatti
L’esordio è una scossa di acidità sulle dita, per sciacquare la bocca e preparare lo stomaco a recepire le portate successive: ci sono la cialda di riso all’aceto, l’ostia al nero di seppia e le lamelle di daikon crudo in saor con alloro effetto sushi. Per divertissement una pelle di mozzarella ottenuta mettendo in infusione sempre l’ostia in una miscela di liquido di governo e latte di bufala, i cui amidi sviluppano una gommosità simile al latticino fresco, che i campani usano mordere per lasciarsi irrorare dai succhi.
Le creme poi, sempre diverse. “Questa è composta di mandorle, in parte amare perché è il loro gusto più fedele, e gin per lo stesso tono in liaison, con la Schweppes e il succo di limone”. Effetto cocktail sotto il manto bianco del monocromo, che nasconde il gusto inquieto sotto l’assenza di stimoli visivi.
Ed è poi squisito il brodo di pesce azzurro con olio essenziali di limone verde, concentrato di profumi e aromi che paradossalmente sgrassa con un ricordo di pasticca agli omega 3. “Come insegnano i giapponesi, la liquidità calda rilascia lo stomaco e continua a prepararlo, mentre l’olio in superficie aiuta a trattenere il gusto. Può trattarsi di pesce azzurro o di lumache, nel ricordo di Brillat-Savarin”. In fondo una grigliata liquida.
Strepitosa anche la tapioca bollita e condita con maionese all’arancia e uova di salmerino, che riproduce sul piatto con la sua estetica informale quasi un gioco di molecole. Il focus è sulle testure, simili e diverse sotto sembianze indistinguibili, con un continuo sentimento di sorpresa al palato; mentre il gusto ricalca un classico uovo alla maionese. Salsa che in questo caso viene preparata interamente con olio essenziale di arancia, ottenuto con la stessa tecnica della ricetta precedente: per un litro sono necessari 10 chili di agrumi, da passare alla Greenstar, congelare e pacossare 3 volte di seguito, in modo da separare solido e grasso prima di filtrare con l’etamina. “La stessa sensazione di quando si passano le dita sui frutti”.
Ancora sottrazione nella seppia, marinata in una salamoia zuccherata per un quarto d’ora come fanno i giapponesi con tutti i pesci, in modo da favorire la fuoriuscita dell’acqua, rassodare la polpa e potenziare il gusto. Ne risulta una testura collosa, che cattura un condimento di foglie di limone frullate e olio infuso al rafano, praticamente senza sale aggiunto. Un antipasto classico non per tecniche e riferimenti, ma nel senso antibarocco del termine. Ci si beve Attention Chenin Méchant 2014 di Nicolas Reau.
“Il primo anno abbiamo lavorato sui fusilloni, il secondo su spaghetti, spaghettoni e spaghettini, quest’anno avevo voglia di cambiare e ho scelto i risoni, che nessuno usa più, mentre i miei restano croccanti al cuore come un sassolino, somigliano veramente ai chicchi”. Con l’acqua di pomodoro marinda estratta alla Greenstar, la colatura di alici, i pistacchi e l’olio di cedro del Libano, ricavato secondo la tecnica consueta, ricreano una sensazione di insalata estiva e di scarpetta, virata in Medioriente grazie alla potenza dei profumi. Tutt’intorno crescono del resto le palme. Ma sarà presto la volta dei piselli in un remake di risi e bisi.
Il dotto è servito in forma di cubo cotto al vapore, “perché è grasso e gustoso di suo”, con una glassa di patate e gli anemoni di mare per una volta in polvere, per il profumo iodato che vira sull’acciuga. Pesce e patate, patate e frutti di mare. Nel bicchiere il Grillo verde Badalucco 2015.
Formidabile nella sua semplicità il riso salvia e burro affumicato, al crocevia con sentori di arrosto. “Io e Giancarlo quando giriamo per trattorie prediligiamo questo condimento. Siamo partiti dall’idea di approcciare il riso con una mantecatura diversa, quindi cottura all’acqua, zero burro e l’olio essenziale di salvia estratto alla Greenstar, limpido e brillante, ricavato previa tripla congelazione come i precedenti. Chiude il ricciolo di burro affumicato che ricorda lo spiedo bresciano, dove fra un pezzo di carne e un uccellino si infila sempre una foglia, il burro viene fatto colare sopra e poi raccolto per condire i casoncelli”. Sposa un Rully La Pucelle Jacqueson 2015.
È quindi la volta di un tris di frattaglie Cazzamali, scelte per la loro eleganza. Prima l’animella croccantata nell’olio con zucca butternut cruda in saor di aceto e aromi (in realtà polpa di “scarto”, leggermente granulosa e fredda per il contrasto termico), una goccia di Anesone e anice stellato sul fondo, le punte di pungitopo per il contrappunto amaro sulla dolcezza, che scherzano sulle vecchie lardellature di tartufo. Tutto in finezza. Si abbina a un cocktail di gin, grappa, sciroppo di sambuco e tonica Tassoni.
Segue, in crescendo ripido, il cuore marinato per una settimana con aromi nel Nebbiolo, affumicato a freddo e grigliato, servito con il suo sangue di riposo misto a grasso di anatra, una fetta di lardo e vinacce del testun, croccanti e un po’ piccanti, in modo da riunire sull’arca bue e anatra, maiale e capra. A smorzare ematico, ferro e acidità provvede il purè di patate ratte setacciate due volte e asciugate sul fuoco, montate al burro in stile Robuchon.
L’apoteosi però è il rognone cotto à la coque, scuola Marchesi, il cui cuore è passato davanti all’ospite à la presse, per poi comporre una grande salsa. “A ispirarmi è stato il sangue copioso che il rognone rilascia dopo la cottura. Noi cuochi assaggiamo sempre questi umori, visto che il pezzo non possiamo toccarlo. Ed era buono, non volevo buttarlo, come il grasso che serve a friggere; così ho trovato aiuto in un ‘intruglio’ di Apicio, che ho ricostruito a modo mio. È composto di fondo di faraona, miele, colatura di alici, Marsala invecchiato ridotto allo scalogno, aceto di groppello, senape antica di Digione e sangue come coagulante alla fine. L’utensile è quello datato 1852 dell’Hotel des Bains di Venezia, con l’effigie dei leoni, fatto ricromare da Ferri, il restauratore di Marchesi. Nella sua bottega ho visto oggetti incredibili”. Il risultato è una salsa classica per complessità, intensità e persistenza, vera protagonista di un piatto che l’esterno del rognone in dadolata aiuta a degustare, grazie alla masticazione indotta dalla gommosità e all’uso del cucchiaio. In accompagnamento, nella stagione fortunata, spuntano asparagi selvatici appena sbollentati e sconditi da mangiare con le dita: amaro su sapido, ferro su ferro come in un duello. “Hanno un tono di liquirizia ferrosa che pulisce: come una pausa ma nella stessa dimensione”. E alla fine viene suggerita la scarpetta per popolarizzare e italianizzare: il concetto infatti è sempre quello della pasta in vescica: la Francia ripartorita in Italia, una classicità nostra. Ed è italiano anche il vino: un Barolo Massolino 2012.
Il punch di fragole è un omaggio alle cene luculliane di Brillat-Savarin, che mette a nudo il sottotesto di sfida del rognone. “A un certo punto del suo libro il gastronomo racconta della cena preparata per una coppia di zii ricchi e incontentabili. Rombo vivo in teglia, brodo di tartaruga, frutti di mare, pernici, cioccolato, amari e digestivi, serviti con cambi di sala e di ruolo: non si erano lasciati scappare un sorriso di fronte a tanta poesia. Allora lui ha offerto questo toast beurré e salé su un tovagliolo di lino con un punch caldo. Ho riletto il passaggio più volte, ma in fondo era l’ultimo atto di gola. Mi sono limitato ad aggiungere l’alloro sulle fragole e adesso sto lavorando su un altro passaggio, di cui però non sono ancora venuto a capo”.
Per dessert c’è il tiramisù in bianco, senza uova: “Sono un fanatico del mascarpone e di tutto ciò che è pannoso. Volevo lasciarlo al naturale, quindi l’ho montato con la panna e unito a sfoglie di ostia bagnate in acqua di governo e panna di bufala, poi essiccate in forno con cristalli di zucchero croccanti, più cioccolato bianco e un infuso di rabarbaro e zenzero a sgrassare”.
La piccola pasticceria è reinventata in forma coreografica, tornando a gesti e interazioni da sagra di paese, alle lusinghe ingenue di frittelle e zucchero filato. Quindi uno spettacolo che invoglia a mangiare, nella fattispecie il tartufo al ginepro e Anesone, il torrone di frutta secca e candita, il pongo di burro di arachidi, arancia e miele passato di mano in mano, il frutto fresco, per finire il sublime fiore di glicine al limone givré, per l’acidità e il profumo, in omaggio alla frittatina di Bergese. L’ultimo sorso è per la garganega passita Albina Menti 2013.
Tutte le foto sono di Lido Vannucchi
Indirizzo
Ristorante Lido84Corso Zanardelli, n 196 - 25083 Gardone Riviera (BS)
Tel. +39 0365 20019
Mail info@ristorantelido84.com
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