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El Molin, la “montagna nel piatto” di Alessandro Gilmozzi: stella rossa e verde in un mulino del ‘600

di:
Silvia Morstabilini
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Cavalese, cuore della Val di Fiemme, è uno di quei luoghi che conservano e raccontano il tempo. Qui il ritmo è quello delle stagioni, del vento che sposta le nuvole sulle Dolomiti, dei boschi che respirano piano. In questo paesaggio, dove la natura detta ancora le regole, sorge El Molin, ristorante insignito di una Stella Michelin e della Stella Verde, che prende vita nel corpo di un antico mulino e nell’anima di uno chef-artigiano: Alessandro Gilmozzi.

Il cuoco che parla la lingua della montagna

Più che un luogo di lavoro, la montagna è per Gilmozzi un vocabolario, una grammatica che plasma il pensiero, lo stile, la cucina. “Dire che la montagna è importante per me è dire poco – è la mia vita”, afferma. Il suo legame con il territorio non è nostalgico né folkloristico: è un continuo confronto, fatto di ascolto, sperimentazione, dedizione. Figlio di una famiglia numerosa da sempre attiva nel mondo dell’accoglienza, cresce tra tavole imbandite e laboratori del legno, attratto inizialmente più dalla scultura che dalla cucina. La scelta del liceo artistico è segno di un’identità che oggi ancora si riflette in ogni piatto: plastica, essenziale, scultorea. Ma è tra i fornelli che trova la sua voce definitiva, a contatto con grandi professionisti e, soprattutto, con la materia prima delle sue montagne.

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Cucinare il territorio: rispetto, ricerca, rigore

Il percorso di Gilmozzi è segnato da una duplice tensione: da un lato il rispetto profondo per le tradizioni alpine, dall’altro una spinta costante verso la sperimentazione. «La tradizione è la base da cui partire: custodisce valori, identità, stagionalità. Ma non basta. Per renderla viva, serve studio, confronto e tecnologia», racconta. Il suo lavoro è sostenuto da una rete di oltre 40 collaboratori locali – contadini, macellai, cacciatori, casari – che rendono possibile una filiera corta, concreta e sostenibile. 

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Da oltre trent’anni, porta avanti un approccio che potremmo definire “botanico”, dove ogni ingrediente viene sezionato, analizzato, compreso fino alle sue più intime potenzialità. «Anche una corteccia può raccontare una storia se la si sa ascoltare», afferma. E mentre il legno, la pietra e il fuoco sono i fondamenti ancestrali della sua cucina, l’acciaio e la tecnologia ne sono gli strumenti attuali, in una convivenza lucida e rispettosa tra passato e futuro.

El Molin: una storia di rinascita

Il ristorante sorge all’interno di uno dei mulini storici della Val di Fiemme, l’ultimo sopravvissuto tra i tanti che un tempo servivano la Magnifica Comunità. «Quando entrai per la prima volta nel vecchio mulino, sentii subito che era il posto giusto. Non solo per cucinare, ma per far rinascere qualcosa», racconta lo chef.

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Gli interni, restaurati in legno di cirmolo – un’essenza locale nota per le sue proprietà benefiche – sono punteggiati di sculture e utensili intagliati a mano dallo stesso Gilmozzi. Le posate, i coltelli da foraging, gli arredi: ogni dettaglio partecipa a un’idea coerente di ospitalità, in cui la materia diventa racconto.

Il menu 35.0: tredici piatti, mille sfumature

Nel menu degustazione 35.0, articolato in tredici tappe, la visione dello chef si compone con forza e delicatezza. È un menu che non cerca la sorpresa fine a sé stessa, ma l’equilibrio, il ritmo, la verità di ogni ingrediente. Si comincia con Le miniature Wild, una serie di piccoli bocconi che preparano i sensi all’immersione. Poi, L’olio e la montagna, che introduce con un gesto simbolico il territorio e i suoi sapori. La Bottatrice/Siluro mette in dialogo due pesci d’acqua dolce spesso trascurati, con esiti di grande eleganza.

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Seguono Tagliatelle ai profumi di montagna, un tributo olfattivo alle erbe alpine, e Gnocchetti all’aglio orsino, lumache, rosa canina e limone candito, un piatto strutturato e floreale, in equilibrio tra acidità, grassezza e freschezza. Il Risotto all’Oltre Alpe, con verbena, ginepro e gemme di pino in agrodolce, racconta una montagna silenziosa e verticale, intensa.

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Pane, burro e olio rompe ogni retorica e restituisce il gesto semplice con profondità. Il Salmerino con latte fermentato e resina è affumicato, evocativo, mentre la Patata rossa con maionese di radici e il Maiale canuto con sambuco e misticanze selvatiche traducono il concetto di comfort food in chiave alpina e contemporanea.

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La Lingua di cervo con rosa selvatica e genziana è il vertice narrativo del menu, un piatto che commuove. Il percorso si chiude con Frutta di montagna e le Miniature Wild dolci, come un eco dei primi assaggi, ma ora maturato e completo.

L’artista-artigiano della cucina

Il gesto creativo di Gilmozzi non si ferma al piatto. La sua manualità da scultore emerge in ogni passaggio: «Quando ero piccolo volevo fare lo scultore. Il disegno, la grafica, la composizione: tutto è rimasto e tutto entra nella cucina». È un pensiero visivo, geometrico, che non cede mai all’eccesso, ma cerca l’essenzialità della forma. Nel piatto, ogni elemento ha una funzione precisa, un suo peso, una sua direzione. Non è solo estetica, ma disciplina: «Il righello è lo strumento che mi rappresenta di più. Mi dà linearità, precisione, pulizia. Ti fa andare dritto, che siano dieci centimetri o dieci chilometri».

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Silenzio, numeri e natura: l’armonia nascosta

Il silenzio, nella cucina di montagna, non è vuoto: è materia. «È fondamentale nel mio processo creativo. Solo nel silenzio riesco a percepire davvero il territorio», spiega. Questo senso di ascolto profondo si traduce anche nelle scelte numeriche del menu: 8 o 13 portate, numeri aurei, armonici, ispirati alla sequenza di Fibonacci. «Li abbiamo studiati a fondo, perché non impattano sulla percezione del cliente. Sono già presenti in natura, quindi la mente li accoglie con naturalezza». Anche qui, come nei piatti, tutto torna: logica, bellezza, spontaneità.

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La cucina come paesaggio

Alessandro Gilmozzi non è solo un cuoco che ama la sua terra. È un narratore di paesaggi, uno che ha imparato a tradurre il profilo seghettato delle cime, il respiro dei boschi, il canto del silenzio in una cucina che non ha bisogno di urlare per farsi notare. Oggi, nel suo ruolo di Presidente dell’associazione italiana Ambasciatori del Gusto, porta questa visione oltre i confini della Val di Fiemme, facendosi portavoce di una cultura gastronomica fondata sull’identità, sulla sostenibilità e sulla memoria. «Da solo vado veloce, ma con la mia squadra vado più lontano», dice. È il mantra di chi sa che l’innovazione non è rottura, ma continuità. Di chi cammina nella neve senza lasciare impronte gridate, ma solo segni precisi, come quelli tracciati da un righello.

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Contatti

El Molin

Via Muratori, 2, 38033 Cavalese TN

Tel: 0462 34007

Sito web

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