Sulle migliori tavole italiane ferve la ricerca su quello che fino a ieri era un umile comprimario, oggi perfezionato nelle tecniche e squadernato negli ingredienti secondo filosofie di volta in volta personali.
I Pani
Niko Romito lo ha nobilitato a portata, servendolo da solo, ma in generale sulle migliori tavole italiane ferve la ricerca su quello che fino a ieri era un umile comprimario, oggi perfezionato nelle tecniche e squadernato negli ingredienti secondo filosofie di volta in volta personali. Ed è diventato anche un business per le casse dei ristoranti, rimpinguate da pagnotte griffate spedite in tutta Italia.Niko Romito, Reale Casadonna, Casteldisangro
Parlando del pane degli chef non si può che partire da Niko Romito, che ne ha fatto un’ossessione. Il suo laboratorio, chiamato giustappunto “Pane”, ne sforna due tipi: uno scuro a base di solina e saragolla, grani antichi abruzzesi, l’altro bianco con l’aggiunta di patate lesse, per una maggiore serbevolezza; entrambi a lentissima lievitazione naturale e ad altissima percentuale di idratazione. Grazie al grande formato la mollica è cremosa, mentre l’acidità spicca. Le pagnotte sfornate ogni 50 minuti sono 120; vengono abbattute e poi recapitate in tutti i ristoranti del gruppo.
Pino Cuttaia, La Madia, Licata
Il segreto del pane di Pino Cuttaia sta in un piccolo mulino a pietra custodito presso l’Uovo di Seppia, dove il grano duro siciliano viene macinato qualche giorno prima dell’utilizzo, intero, per avviare una piccola maturazione, senza rischiare che irrancidisca. Si tratta di margherito di Filippo Drago. “Non voglio fare il mugnaio: il vantaggio è l’autonomia. È davvero il mio pane. La cosa bella è che la crusca, che anticamente si dava alle galline dopo l’abburattamento, viene spolverizzata sulla crosta prima della cottura. E grazie al germe dura una settimana”. La lievitazione è a lievito madre, con il complemento dei grissini. Viene portato dopo il benvenuto in forma di quartino, il fabbisogno di una persona a casa. È anche l’occasione per fare un po’ di pedagogia, mostrando ai bambini la lavorazione from scratch.
Alessandro Dal Degan, La Tana, Asiago
“Mi fai una domanda a me cara, perché sono amantissimo del pane come alimento, quindi mi è naturale curarlo. È tutto nostro, anche all’osteria, ma lo gestiamo diversamente. Il gourmet ha un unico pane, una pagnotta più o meno grande secondo il numero dei commensali. Il lievito madre di circa 80 anni viene ‘aumentato’ da fermentazioni spontanee di farine 1 macinate a pietra, per dare un tono di profumi. Arriva con la prima portata salata vera e proprio, ma prima viene recapitata una baguettina di polenta, non farina di mais, lasciata fermentare e lavorata con farina 1, accompagnata da burro di montagna. Poi ci sono i grissini di cipolla che sono già sul tavolo. Invece all’osteria serviamo tre tipi di pane da fetta: bianco, nero e aromatizzato alle erbe”.
Damiano Donati, Il Punto, Lucca
Damiano Donati si concentra su un unico tipo di pane, senza grissini o altro. È lo stesso al Punto e al Puntino ed è stato creato personalizzando letture e confronti con Gabriele Bonci. “Seguo il filone californiano, che vuole la crosta ben tostata e la mollica umida”, dice. Il lievito naturale è di mele, la farina un blend di verna e gentil rosso di Guido Favilla con la tipo 2 da grano tenero di Molino Andreozzi. Da questo mese all’interno è presente un gel, che favorisce la reazione di Maillard semplificando gli zuccheri. Donati lo prepara scaldando una pentola di acqua a 80 °C e tuffandovi un terzo di miscela di farina di farro e di castagne, poi spegne, emulsiona e lascia riposare per 5 minuti. Ma la formula varia ogni mese, anche in base ad esigenze “agricole”: è insomma un pane del mercato. La cottura si svolge in un comune forno a convezione. Per ovviare all’asciugatura precoce della crosta causata dalla ventola, che ostacola la “fioritura”, il pane prima di essere infornato viene rovesciato su una teglia di alluminio spessa e bollente. In tavola arriva al momento del benvenuto e resta per tutta la parte salata. Viene prodotto ogni due giorni e il secondo, previa rigenerazione a 200 °C per mezz’ora, risulta ancora più buono perché le acidità si attenuano ed escono i profumi, soprattutto di castagna.
Norbert Niederkofler e Michele Lazzarini, St. Hubertus, San Cassiano
“Abbiamo fatto una grande ricerca sui grani della zona. Da quasi due anni collaboriamo con un signore che ha parecchi campi vicino a Brunico coltivati a segale, farro e frumento. Le farine sono molto grezze, tanto che sono state necessarie numerose prove per capire idratazione e lievitazione, anche perché cambiano ogni anno. Il lievito è liquido, un licoli di segale. Di solito prepariamo l’impasto il giorno prima e lo lasciamo lievitare a bassa temperatura di notte per raggiungere un’acidità elevata, che a noi piace e serve per far partire la salivazione, aprendo il gusto. Sono pagnotte che posiamo crude sul tavolo e presentiamo al cliente al suo arrivo, poi vengono cotte, lasciate riposare e servite dopo 3 o 4 portate dall’inizio del menu, insieme al burro. In alternativa ci sono piccole schiacciate di grano saraceno, acqua e grasso di agnello, con erbe fresche essiccate e polvere di aglio orsino bruciato”.
Ciccio Sultano, Duomo, Ragusa
“Diamo così tanta importanza al pane che abbiamo creato un panificio con cucina, i Banchi, dove produciamo anche quello del Duomo. Si tratta di un elemento primordiale, quotidiano, sacro, universale, frutto del grano che è una delle tre piante della civiltà. Parla tutte le lingue del mondo e accomuna ogni strato sociale. Pane al pane è il nostro claim. I Banchi sfornano tra gli altri Castelvetrano, pani di perciasacchi e rossello, talvolta anche un pane di Matera. Panificare bene è difficile, bisogna lavorare quasi in modo fisico. Ma l’evoluzione è attingere dal passato e usare il presente e il futuro, ad esempio per la conservazione. Al Duomo arrivano due tipologie: un pane bianco per l’ingresso, 100% rossello, e verso la fine degli antipasti un misto timilia con crusca idratato al 90%, perché il Castelvetrano presenta un’alveolatura molto fitta, mentre il taglio con farina semintegrale regala più forza, quindi volume, e una buona acidità. Poi ci sono la carta da musica e i grissini di grano duro. Concludo dicendo che se oggi il pane sta iniziando a rivestire un’importanza diversa, è anche grazie agli chef, che hanno fatto tanta ricerca intorno a un semplice chicco”.
Cristiano Tomei, L’Imbuto, Lucca
“Nella vita si incontrano anche persone straordinarie. Una di queste è Francesca Ciampalini, ex ricercatrice che a un certo punto ha cambiato strada e si è infilata nel mondo della cucina dedicandosi al pane. Dal nostro incontro è scaturita una bella scintilla, anche grazie al Molino Bardazzi di Prato. Sono farine vive, naturali, da grani antichi e non, senza miglioratori, molto difficili da lavorare perché hanno tempi dilatati. Ma abbiamo ottenuto grandi risultati: pani saporiti e digeribili che durano tantissimo, anche 10 giorni; basta rigenerarli 20 minuti e poi farli riposare. Ne serviamo diversi tipi, con il lievito madre, il kvass (o ‘birra di pane’ vecchio fermentato) e anche con la tecnica dell’autolisi, quindi la farina che fermenta con l’acqua, qualcosa di piuttosto primitivo. C’è quello di patate e quello con la farina di corteccia, che ricorda la mia battuta e anche un succedaneo dei tempi di carestia. È un compagno rassicurante della tavola, che invio subito e resta sempre. Ed è diventato anche un business, visto che lo servo al Bauer di Venezia, dove sono consulente”.