La storia di Santi Santamaria, lo chef barbuto, primo in Catalogna a ottenere le tre stelle, che ebbe il coraggio di battagliare contro le “degenerazioni” della gastronomia molecolare come un novello Don Chisciotte. Ora il suo ristorante Santceloni a Madrid rischia di scomparire.
La Notizia
Chi non ricorda Santi Santamaria, lo chef barbuto, primo in Catalogna a ottenere le tre stelle, che ebbe il coraggio di battagliare contro le “degenerazioni” della gastronomia come un novello Don Chisciotte? Il suo mantra era il prodotto, fosse esso povero o ricco, da esaltare attraverso elaborazioni corrette e un servizio principesco, senza forzature tecnologiche.Un simile afflato nasceva dalla terra: era in una fattoria che Santamaria era nato e lì era tornato, nel ristorante di famiglia, quando aveva deciso di abbandonare gli studi di ingegneria. Nel 1981 con la moglie lo aveva trasformato nel Racó de Can Fabes, presto entrato nella leggenda e seguito da nuove avventure imprenditoriali, fino a Dubai e Singapore.

Nel frattempo l’astro di Ferran Adrià infiammava la gastronomia: niente di più lontano dallo stile materico di Santamaria, che ingaggiò aspre polemiche contro la cucina “molecolare” o “chimica”, accusata financo di danneggiare la salute con i suoi additivi. “Con Ferran Adrià c’è un divorzio enorme, concettuale ed etico: lui e la sua magnifica équipe vanno in una direzione contraria ai miei principi”, aveva dichiarato. Ma ne aveva pure per la cucina spettacolo e il suo circo mediatico, nonché per l’impegno che sarebbe presto assurto alla ribalta. “Ci si aspetta ormai che gli chef facciano più che cucinare, che siano opinion maker e discettino di nutrizione, che comunichino ad ampio raggio, ma questo può andare a detrimento della loro professione”, sentenziava. Un’intelligenza che manca, a qualsiasi tavola si preferisse sedere, e che oggi probabilmente troverebbe nuove forzature contro cui scagliarsi, come le costosissime opere d’arte totali in cerca dell’effetto wow.



Sono molti infatti a interpretare il ridimensionamento come anticamera della chiusura, particolarmente crudele dato che El Racó de Can Fabes, la casa madre tristellata, ha già chiuso nel 2013 e il Santceloni rappresenta a tutti gli effetti il luogo deputato alla salvaguardia della memoria e della cucina del grande chef catalano. Ad assicurare che il lascito gastronomico non sarà sperperato, restano gli allievi, che continuano a praticare orgogliosamente una cucina di prodotto, territorio e storia, ben radicata nelle tradizioni femminili, fondata sul fare le cose bene, sul mangiare bene e sul sapere cosa si mangia, come Ismael Alegria di Kale Txitki a Lakuntza e Ismael Delgado di La Fabula a Grenada. Il quale conclude: “Se chiude Santceloni scompare un’istituzione, non un modo di interpretare la cucina”. Lo stesso Pau conferma che “l’eredità di suo padre è in tutti i luoghi dove siano presenti un cuoco che abbia lavorato con lui o un suo piatto. Mi emoziono quando da Can Jubany riconosco il suo lardo con oloturie e cavolfiore, o quello al caviale da Els Tinars o il suo stinco in tanti altri ristoranti. Ora la gastronomia sta dando ragione a mio padre, si parla di prodotto, di prossimità, di stagionalità. E nel contempo c’è chi vuole chiudere la cattedrale di questo culto. Mentre la gastronomia gli dà ragione, non gli viene riconosciuto il merito”.

Fonte: 7canibales.com