Lusso non ostentato, stanze di grande confort e personale all’altezza di un contesto nobile rendono la sosta difficile da dimenticare. Anche grazie al ristorane George, fresco di stella Michelin, guidato dallo chef Domenico Candela
La Storia
Napoli è da sola un meraviglioso contenitore di affascinanti contraddizioni, ma prima ancora è un luogo che non si finisce mai di scoprire, viva, pulsante, caoticamente ordinata. Soprattutto Napoli è stupenda, ancora di più se la si osserva da un’elegantissima terrazza in collina a Chiaia, il quartiere dove si trova l’albergo più antico della città, che regala una vista del tutto unica da Posillipo fino al Vesuvio con il golfo sullo sfondo. Il Grand Hotel Parker’s nasce nel 1870 dalle fondamenta di una masseria del principe Salvatore Grifeo come albergo Tramontano.Poco meno di vent’anni dopo viene salvato dal fallimento da George Bidder Parker, biologo marino inglese della Stazione Biologica della Real casa borbonica. Dal 1889, passando attraverso importanti ristrutturazioni dopo i danni della seconda guerra mondiale e ancora a seguito del tragico terremoto in Irpinia grazie all’avvocato Francesco Paolo Avallone e alla sua famiglia che a oggi è unica proprietaria, porta il nome dello scienziato e con i suoi splendidi saloni è stata la meta prediletta di ospiti di alto rango, da Robert Louis Stevenson a Virginia Woolf e Oscar Wilde e altri artisti e personaggi di spicco di cultura e spettacolo.
Lusso non ostentato, stanze di grande confort e personale all’altezza di un contesto nobile rendono la sosta difficile da dimenticare. Ma non basta, perché al ristorante George, fiore all’occhiello della ristorazione del Parker’s, la proprietà ha scelto di investire su Domenico Candela, classe 1986, cuoco autoctono tornato in città dopo diverse peripezie professionali che l’hanno formato al punto di consentirgli di bruciare le tappe con una stella Michelin raggiunta in un solo anno.
“Ho iniziato la scuola alberghiera a quattordici anni dopo un anno di istituto tecnico industriale, perché non volevo fare il cuoco. Ero perplesso, abituato con mia madre e mia nonna grandi casalinghe, cucinare lo vedevo come un mestiere da donna”. Ma è proprio la mamma a convincerlo a iniziare una scuola che portava a un mestiere: “Mia madre la vedeva lunga, non l’avrei mai immaginato ma già dopo il primo anno cominciai ad appassionarmi. Iniziai a fare il cameriere, nei weekend andavo a lavare i piatti in pizzeria e imparavo anche la frittura”. Poi un professore lo porta con sé in una importante azienda di catering che gestiva una media di trenta, quaranta eventi al giorno con un centinaio di cuochi, dove Domenico apprende i rudimenti dell’organizzazione.
Quando finisce la scuola entra nel ristorante che oggi è Palazzo Petrucci. Passano sei mesi e se ne va a Milano a fare la sua prima esperienza con Emilio Coppola in un albergo di via Tortona, torna al sud al Quisisana di Capri con Stefano Mazzone ed è lui a mandarlo ad Alba a Villa D’Amelia con Damiano Nigro: “Alba? Nemmeno sapevo dove cercarla sulla cartina geografica!”. Lì capisce che il modo di lavorare alla francese, tra rigore e disciplina, lo affascina. Tramite Nigro arriva sull’Argentario al Pellicano con Antonio Guida, fa tre stagioni estive e d’inverno prima a Cortina al Tivoli e poi a Le Taillevent a Parigi dove sta pochi mesi. Salta l’apertura del Mandarin a Milano e va da Bartolini ai tempi del Devero. Da lì passa a Norcia come sous chef al Vespasia costretto successivamente a chiudere a causa del terremoto. Grazie a Martino Ruggeri approda come junior sous chef da Yannick Alléno per un anno e mezzo.
Fino a quando non arriva la proposta di tornare a Napoli come chef: “Giovanni Avolio, con il quale avevo lavorato al Pellicano, mi parlò di questo progetto. All’inizio ero titubante, perché Napoli non è una piazza facile per la mia cucina con questa mano mezza francese, sebbene io non dimentichi mai le mie origini. Poi mi affacciai a questa terrazza e mi dissi: non posso non tornare!”. Così Domenico Candela si guadagna la fiducia della famiglia Avallone e quando arriva la stella capisce che la strada è quella giusta: “Ho pianto di gioia per due giorni, perché questo è un mestiere duro, che ti toglie tante cose. In una cucina ci sono gioia, dolore, tensioni: se ci stai dentro anche diciotto ore non hai più libertà e non sai mai se i sacrifici che fai vengano ripagati. Quindi è stata una soddisfazione immensa, per me e per i ragazzi, quasi non ci credevo, mi è passata davanti agli occhi tutta la carriera!”.
Domenico ama viaggiare e ispirarsi alle culture gastronomiche che incontra: con l’Asia, in particolare la Thailandia, ha un notevole feeling. In realtà per lui la cucina “dev’essere un momento di felicità, perché se non sei felice non riesci a realizzare qualcosa di bello e io voglio che i miei ospiti lo siano, che nella mia felicità si immedesimino. Ai miei ragazzi dico: divertiamoci. Se non inizi col sorriso il cliente lo capisce, dobbiamo usare la giusta dose di follia e lasciar andare la creatività, certo, ma dentro un’organizzazione con regole e disciplina”.
I Piatti
Una cucina di memoria, di ricordi felici, un menu nel quale alcuni piatti cambiano anche ogni quindici giorni per non perdere gli stimoli: “Dobbiamo cucinare con amore, altrimenti andiamo in fabbrica a spingere un bottone. Siamo degli artigiani e occorre mettere passione anche in una pasta in bianco”. È buonissimo Déjà vu, il carciofo campano cotto alla brace con I profumi e i sapori della domenica. È il carciofo che il papà dello chef comprava tutte le domeniche ai mercati, insieme al “bagnetto verde”, salsa piemontese che sa di Mediterraneo con acciughe e pane e poi tecnica francese nella royale.Notevole anche l’Uovo bio livornese con cottura mollet, crema di piselli alla parigina con olive verdi e pomodori secchi, gel di pompelmo rosa e formaggio caprino: freschezza, acidità, consistenza armonica. Si chiama “Cas e Ov”, cacio e uovo, ricetta della tradizione napoletana a cui si ispira, mescolata un’altra volta alla consistenza francese nei quattro minuti della cottura.
Convince decisamente anche Mare Nostrum, la linguina di Gragnano cotta in estrazione di triglia rossa di scoglio con gel di tamarindo e alga nori. Pasta campana e bouillabaisse, ma qui si ritrova anche un richiamo al Giappone con l’umami dell’alga e la soia che arricchisce il tamarindo nel gel.
Sontuoso Colui che viaggia, il piccione piemontese cotto intero sulla carcassa alla brace con indivia belga cotta nel succo di calamansi e ricoperta da un velo di lardo, crema arachidi salate e jus profumato al pepe di Timut.
Ancora Quintessenza, calamaro nostrano crudo, fritto, essiccato, fermentato e alla brace, quello che lo chef definisce “il piatto più completo della mia carta” con le sue sette tecniche differenti: elemento fondamentale è il calamaro lavorato a tutto tondo per esaltarne ogni sapore: tradizione mediterranea nella frittura e alla brace, tecnica classica nella fermentazione del garum, Francia nel consommé.
Infine Peccato di gola, l’eccellente soufflé a base si crema pasticciera e meringa montata, aromatizzato al cardamomo verde con sorbetto al mirtillo selvatico, realizzato dalla pastry chef Laura Cosentino. Ecco perché tornare a Napoli è d’uopo.
Indirizzo
Grand Hotel Parkers e ristorante GeorgeIndirizzo: Corso Vittorio Emanuele, 135 80121 - Napoli
Tel: +39 0817612474
Sito Web: grandhotelparkers.it