Nesos, il vino prodotto come facevano i Greci 2500 anni fa
Ormai è sulla bocca di tutti, ma sono pochi i fortunati che possono vantare di averlo assaggiato. No, non è una provocazione, ma l’istantanea che riassume un’avventura che ha per protagonista un vino che esisteva millenni fa e che oggi viene ripescato dagli abissi della memoria. Il merito è di uno di quegli incontri, non fortuiti, ma capaci di innescare intrecci di idee e collaborazioni che non mirano certo ad attuare una rivoluzione, quanto ad allargare la mente sulle infinite possibilità che ci vengono offerte nella vita. In questo caso, nella vite.Siamo nel 2018, Antonio Arrighi è un produttore di vino elbano che ha riportato la propria isola in una compagine nazionale, riscoprendo la vocazione vitivinicola sepolta nel tempo in favore del turismo naturalistico – poiché, come ama ripetere, durante il governo napoleonico di inizio 800, l’Elba era una grande produttrice di vino. Oggi, dopo 100 anni, Arrighi festeggia le sue 50 vendemmie e vanta un’azienda che si allarga su 15 ettari di cui 8 vitati, e che oltre alla riscoperta dell’ansonica e dell’aleatico, ha iniziato ricerche e studi in collaborazione con varie università italiane, tra cui Pisa, Firenze e Arezzo. Arrighi non è solo un viticoltore, è anche un curioso e uno sperimentatore, che già dalla metà dei primi anni 2000 ha iniziato a vinificare nelle anfore di terracotta di Impruneta, e che ha sempre cercato il progresso e la contemporaneità e lo studio di metodi antichi o obsoleti.
Durante il convegno su Archeologia e Viticoltura ha modo di dialogare con il prof. Attilio Scienza, e i due scoprono che l’Isola d’Elba ha molto in comune con alcuni tratti della Grecia, specie sul piano storico. 2500 anni fa sull’isola di Chio si produceva il “vino degli dei”, un nettare da uve, raro e pregiato, che come testimonia Plinio, Cesare offrì persino al banchetto per celebrare il suo terzo consolato. “Come i vini di Lesbo Samos o di Thaso, quello di Chio era un vino dolce e alcolico, unica garanzia per sopportare i trasporti via mare, ma aveva qualcosa che gli altri vini non avevano e che i produttori di Chio celavano gelosamente e che rendeva questo vino particolarmente aromatico e serbevole".
L’isola di Chio era uno dei luoghi della Grecia dove cresceva una pianta, il terebinto, dalla quale si estrae una oleoresina usata per rendere impermeabile l’argilla delle anfore e che aveva anche un importante ruolo nella conservazione del vino. Inoltre, a potenziare questo effetto antiossidante e antisettico, la presenza nel vino del sale derivante dalla pratica dell’immersione per qualche giorno nel mare dell’uva chiusa in ceste, con lo scopo di togliere la pruina dalla buccia e accelerare così l’appassimento al sole, preservando in questo modo l’aroma del vitigno.” Sostiene il prof. Scienza.
Anche gli antichi affinavano il vino nelle anfore di terracotta, funzionali al trasporto per mare, e nel caso dei vini di Chio, le anfore furono create da Prassitele, primo scultore di nudo femminile dell’antichità classica, che le disegnò imitandone appunto la silhouette. I resti di queste anfore sono stati rinvenuti persino nelle acque del mare elbano, poiché l’isola era una tappa delle rotte mercantili tra la Grecia e la costa marsigliese, in cui approvvigionarsi del ferro etrusco.
Quindi, mare, anfore, scienza. Ma le uve?
Anche in questo caso interviene la scienza, anzi, il prof. Scienza. “Qualche anno fa, analizzando il DNA di un set di vitigni dell’Isola del Giglio e della Toscana tirrenica e confrontandoli con altri provenienti dal bacino del Mediterraneo, i ricercatori del DIPROVE dell’Università di Milano ebbero la sorpresa di trovare delle notevoli analogie genetiche tra il vitigno Ansonica-Inzolia e due vitigni provenienti dall’Egeo orientale, il Rhoditis e il Sideritis, varietà caratterizzate da avere una buccia molto resistente e una polpa croccante, molto adatte quindi alla manipolazione e all’appassimento.”
A settembre 2018, forti di queste conoscenze, dopo la vendemmia, i grappoli di ansonica sono stati posti nelle nasse – che Arrighi ha reperito a Castel Sardo, dopo lunghe ricerche – e quindi immerse nel mare dell’Elba a 10 metri di profondità per 5 giorni, quindi ripescate, portate in azienda e messe ad asciugare al sole sui graticci. Il sale marino ha sì eliminato la pruina superficiale, accelerando quindi il processo di appassimento, ma per osmosi è penetrato nell’acino, senza danneggiarlo. La successiva fermentazione in anfora con le bucce e senza i raspi, è avvenuta senza solfiti, forti della presenza del sale, antiossidante per eccellenza. Il risultato è stato racchiuso in 40 bottiglie affinate fino a novembre 2019, e il suo nettare, chiamato Nesos, presenta probabilmente tutte le analogie possibili con il vino di Chio, ma in una visione contemporanea, senza l’aggiunta di zuccheri e aromi che l’antichità richiedeva.
A tutti gli effetti un vino archeologico, ottenuto con processi risalenti a 2500 anni, più che ancestrale, con caratteristiche inusitate rispetto a qualunque suo pari. L’esperimento si è ripetuto nel 2019 con la stessa procedura, e a braccetto con la ricerca scientifica coadiuvata dalle università, è stato iniziato un lavoro di documentazione e comunicazione che ha destato l’attenzione mediatica mondiale, al punto che ne è stato realizzato il cortometraggio “Vinum Insulae”, diretto e prodotto da Stefano Muti (Cosmomedia), che nel 2019 ha ottenuto il primo premio come Miglior Cortometraggio al 26° Festival International Œnovidéo di Marsiglia e il riconoscimento della Revue des Œnologues, per l’originalità e il valore della sperimentazione.
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Coi suoi 100 mg/l, il sale dona al vino una consistenza più densa, le bucce ci spostano verso il ricordo di un orange, mentre in bocca si viene pervasi da note marine di alghe, e poi la setosità che cede il passo alle note di agrumi e mandorla. Un calice che non ha termini di paragone, ma che ci proietta in un passato lontanissimo e mitico, grazie alla visionarietà di un vignaiolo fuori dagli schemi, che con questo messaggio in bottiglia ci dona la conoscenza di un’isola con la sua storia millenaria.
Foto per gentile concessione di Antonio Arrighi
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