I suoi piatti sono i tanti capitoli di un libro che narra la storia di Roma attraverso il gusto e le sue vicissitudini. Da Arcangelo Dandini l’esperienza gastronomica diventa una macchina del tempo, tracciando un itinerario che connette passato e presente.
L'Arcangelo
Il ristorante
“Cum nimis absurdum: è con questa bolla che papa Paolo IV decreta nel 1555 la reclusione degli ebrei romani nel ghetto, isolandoli così dal resto della città. È in quel momento che nasce la cucina romana del ghetto, poiché nella bolla vi erano molte regole ferree tra cui il divieto di mangiare certi cibi: ad esempio, gli ebrei potevano mangiare solo pesci di piccole dimensioni, e degli animali potevano mangiare solo gli scarti, per lo più interiora. Ecco perché la cucina romana come la conosciamo oggi è tanto ricca di quinto quarto.”
È così che ama raccontare la storia Arcangelo Dandini, l’oste filologo che dal 2003 si divide tra lo studio e i fornelli del suo ristorante Arcangelo – senza dimenticare il locale Supplì e il più recente Chorus – in una zona di Roma trafficatissima e dall’inevitabile fascino per la storia che porta con sé.
“Sono nato ai Castelli Romani, quello che definisco il giacimento gastronomico di Roma, perché negli anni 50 in città si moriva di fame, non c’erano orti ovviamente e tutto arrivava dalla campagna. A Rocca Priora ho trascorso la mia infanzia nel ristorante dei miei genitori, nei primi anni 60 in cui la vita era scandita dai ritmi della campagna, allevando gli animali e coltivando la terra, e il cibo era sempre al centro, con quella concezione agreste per cui tutto era fatto a mano, dal pane alle fettuccine. Quella concezione mi guida ancora oggi, i sapori della mia infanzia sono i sapori di oggi. Negli anni 80 i miei hanno chiuso il ristorante e io dopo il servizio militare ho iniziato a lavorare in cucina, anche da Aimo e Nadia, finché nel 90 sono tornato a Roma, a Monte Porzio, e ho aperto un ristorante con mia moglie Stefania in mezzo a una vigna, perché il contesto campestre è la mia Arcadia, il luogo in cui mi sento veramente a casa.
Avevo però il sogno di ricomporre la squadra di famiglia e ho chiesto ai miei genitori di tornare a lavorare insieme, e l’occasione si è presentata al ristorante Esplanade di Viareggio, dove abbiamo trascorso stagioni intense e bellissime, dal 1994 al 1997, finché mio padre si è ammalato. Conclusa l’esperienza viareggina con la sua grande vitalità, ho lavorato per 8 mesi a Ischia, ma Roma mi ha chiamato di nuovo, stavolta grazie a Costantini, che mi ha assunto al Simposio. Lì ho conosciuto Gabriele Bonci che era ancora uno studente dell’alberghiero e di sera prestava servizio da Costantini, ma all’epoca mostrava già le grandi doti di cuoco che tutti noi oggi conosciamo. Nel 2003 alla fine ho aperto qui, a pochi passi da Costantini, con Stefania, che ogni giorno mi accompagna in sala, come una parte inscindibile di me.”
La cucina romana è il frutto di molte contaminazioni storiche e geografiche, spesso legate ad aneddoti che Dandini conosce a menadito e non si stanca mai di recitare ai suoi commensali seduti ai tavoli assiepati della caratteristica sala. L’arredamento è informale, caldo, quasi un set cinematografico, ai muri opere d’arte di artisti spesso amici, boiserie e sedie thonet rivestite di velluto rosso, e una miriade di macchinine colorate di ogni forma e dimensione che Dandini colleziona da sempre e che si affastellano sui tavoli e sul bancone: “Molto spesso sono regali di clienti affezionati che conoscono questa mia passione. Perché mi piacciono? Perché la mia vita è tutta giocata sulle connessioni tra cibo e ricordi, la cucina è memoria, e la macchinina rappresenta l’idea del viaggio mentale che si può compiere attraverso il cibo. Per questo le metto sempre sui tavoli.”
I piatti
I suoi piatti sono i tanti capitoli di un libro che narra la storia di Roma attraverso il gusto e le sue vicissitudini che spesso restano fuori dai manuali di storia, ma che oggi abbiamo la fortuna di ascoltare e assaggiare in questa trattoria borghese, che tra l’altro ha ottenuto quest’anno il riconoscimento dei 3 gamberi nella Guida del Gambero Rosso. I ravioli di cipollata, parmigiano e il suo garum, ad esempio, provengono direttamente da una ricetta di Bartolomeo Scappi, cuoco al servizio di ben sei papi dalla metà del 500, che cucinava le cipolle impreziosendole con spezie come cannella e noce moscata.
La pasta e broccoli con minestra d’arzilla è un altro cult della cucina romana in cui Dandini sostituisce lo spaghetto spezzato con la pasta mischiata potente per avere più masticazione. “Sono piatti semplici ma che proprio per questo richiedono meticolosa attenzione agli ingredienti, come l’arzilla, ovvero la razza chiodata, il broccolo romano e un pizzico di pomodoro pelato in inverno.”
“Narra la storia che le truppe napoleoniche, risalendo dalle Due Sicilie, abbiano invaso Roma con le armi e con il cibo, perché per fare la guerra avevano pur bisogno di mangiare. E insieme alle armi si sono portati dietro delle polpette, forse dalla Sicilia o forse da Napoli, che erano delle palle di riso ripiene di carne. E pare che a un certo punto, tra una fucilata e una barricata, queste palle siano finite in mano anche ai romani. ‘Quelle surprise’, le chiamavano i francesi nell'addentare la polpetta e scoprirne il ripieno.
E i romani per assonanza hanno capito ‘che supplì’, coniando un neologismo ma soprattutto impossessandosi di quel cibo potente, che in alcuni vecchi ricettari è declinata al femminile, LA supplì, ad avallare la deviazione linguistica dal francese. Forse la panatura si è aggiunta in seguito, la forma nel tempo si è allungata, e si è aggiunto il formaggio filante, al telefono.” È così che Dandini racconta i suoi Supplì, talmente amati da aver deciso di dedicare loro uno spazio esclusivo, Supplizio, la friggitoria che propone un ventaglio di supplì e fritture anche da passeggio.
L’oste definisce la sua una cucina pastorale testaccina, nata proprio in questa parte di Roma dove nel 1870 gli uomini sono stati chiamati dalla campagna a lavorare al restringimento degli argini del Tevere dove ora sorge il quartiere il quartiere Prati, e Arcangelo. Di questa matrice è la sua Gricia, da lui meglio definita Cacio e Unto. “In campagna si allevavano maiali e pecore. Del maiale non si buttava nulla, notoriamente, e il suo grasso era un prezioso conservante, oltre che un insaporitore per le cotture. E insieme al formaggio pecorino garantiva la sussistenza, anche per i pastori dell’Appennino che partivano all’alba con il gregge per andare a fare il carbone.” La gricia, anzi, la cacio e unto, è una base a cui nel tempo si è aggiunta la pasta, e Dandini la pasta la cuoce al chiodo, al dentissimo, in modo che insieme al guanciale – rigorosamente privato del pepe – garantisca un morso vigoroso che amplifica il gusto.
“Da qui sono poi note le due derivazioni, al cacio e al guanciale è stato aggiunto il pomodoro, per farsi Amatriciana (con cui Dandini condisce gli gnocchi) e quindi l’uovo, per me solo tuorli senza albume, in modo da essere più cremoso, per farsi Carbonara. La Cacio e pepe è una figliastra recente, in cui al formaggio è stato aggiunto il pepe, ma non ha nessuna matrice pastorale, in quanto il pepe era una spezia costosissima e in campagna si centellinava per gli insaccati.”
La Pajata alla macellara è un piatto per golosi veramente audaci. “Direttamente dalla cucina del ghetto, ho ripreso questa ricetta così come la preparava mia nonna, e lei era una cuoca che studiava le ricette di Escoffier, quindi aveva un occhio attento al gusto e ai procedimenti. Le interiora dell’agnello le prendo dal macellaio, non spellate, le cuocio con la cipolla, il chiodo di garofano e il vino bianco, quindi aggiungo un po’ di salsa di pomodoro e lascio a fuoco a lento per un’ora e mezza. Ultimamente la propongo da sola, senza pasta, in modo risulti tutto il suo gusto in purezza, con la consistenza stessa dell’intestino che simula quella della pasta, a svelare il ripieno dolciastro, inconfondibile.”
La ricotta è una sorta di Devozione a cui Dandini dedica un dessert, di rara semplicità, ma proprio per questo di grande materia. “A Rocca Priora ci sono pecore non sarde, le sopravissane, di origine sibillina, che vivono in pascoli d’altura, e producono il latte da cui deriva questa straordinaria ricotta, dal latte concentrato. Per non sporcare il suo sapore, io aggiungo solo delle ciliegie e un crumble di nocciole, ed è un dessert che propongo da anni sempre nello stesso modo, qualunque variazione ne sciuperebbe la bontà.”
Foto: Crediti Lido Vannucchi
Indirizzo
L'Arcangelo
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