Il nuovo libro di Luciano Pignataro celebra la pizza nella sua accezione (ed evoluzione) storica: con più di 600 pizzerie recensite online dal 2004 sul Wine Blog, il grande giornalista e critico campano ci guida alla scoperta di un vero e proprio patrimonio da tutelare. Con sensibilità e un occhio alle nuove leve.
Le Pizzerie Storiche di Napoli: il nuovo libro di Luciano Pignataro che celebra la pizza come storia e non come marketing
Napoli compie 2.500 anni e, invece di soffiare sulle candeline, alimenta sempre di più il fuoco. Il fuoco dei forni delle pizzerie. Niente retorica da cartolina: qui l’omaggio è concreto, profuma di banco di marmo e pale annerite. Le Pizzerie Storiche di Napoli. Viaggio nell’Anima della Città è il libro-corale orchestrato da Luciano Pignataro che mette ordine — e sentimento — in questo rito laico. Un volume che non spiega Napoli: la fa parlare. La presentazione è fissata il 13 ottobre, alle ore 11.00, nella Chiesa di Sant’Antoniello a Piazza Bellini: luogo di pietra e pazienza, oggi di proprietà della Federico II e restituito alla città dopo il restauro. Una prima uscita aperta al pubblico, con la presenza del Magnifico Rettore Matteo Lorito, che suona come una dichiarazione d’intenti: la pizza è un patrimonio culturale, prima ancora che gastronomico.

Il curatore Luciano Pignataro lo dice senza giri di parole: «Nasco nella carta e torno alla carta. In un momento di sapere fluido ho sentito il bisogno di poter toccare una storia straordinaria». È una scelta editoriale e, insieme, politica: dare corpo alle parole, restituire fisicità a un racconto che online corre il rischio di perdersi “nell’aria”. La carta, oggi, è anche una forma di responsabilità. Tornare alla carta non è un ritorno al “come eravamo”; è un ritorno al corpo delle cose. Pignataro lo dice con ironia: «Siamo nell’epoca delle guerre ibride, dei siti che vanno in palla, della sensazione che “tutto quello che sta nell’aria” possa sparire. La carta resta. Un libro ben fatto è un oggetto: lo tieni, lo regali, te ne assumi la cura». C’è un’etica della materia, in questa scelta. La pizza è manuale: un libro sulla pizza non può che essere maneggiabile.
Un coro di firme, un’unica città
Undici firme, ventitré pizzerie. Un coro, non un assolo. Pignataro rivendica il pronome plurale come gesto controcorrente in un tempo di io ipertrofici: «La pizza appartiene alla comunità napoletana ed è, al tempo stesso, di nessuno e di tutti. Per raccontare un mondo complesso come Napoli servono più sensibilità. E c’è un’altra ragione: spazio alle giovani generazioni, a cui è affidato il compito di difendere e tramandare un patrimonio spesso aggredito».

Non è un’antologia di recensioni; è un viaggio sentimentale in 124 pagine (prezzo 30 euro, già disponibile su Amazon) sostenuto da Mulino Caputo e edito dal LucianoPignataroWineBlog — sito che, dal 2004, ha raccolto oltre 600 recensioni di pizzerie. Nel sommario scorrono i capitoli come tappe in un vicolo affollato: La Pizza Napoletana: storia dalle origini ai giorni nostri (Pignataro), Pizza Artigianale, La differenza di valore è il pizzaiolo, Il profumo della pizza non è il profumo del pane. Poi le pizzerie e gli autori: Al 22, Antica Pizzeria Da Michele, Brandi, Cantina del Gallo, Cafasso, Capasso, Concettina ai Tre Santi, Da Attilio, Gorizia 1916, Imperatore 1906, La Masardona, Lombardi 1892, Mattozzi, Pellone, Port’Alba, Starita, Trianon, tra le altre. Un atlante d’affezione, più che un elenco. Il volume si apre con Antimo Caputo (Veniamo da lontano e andiamo lontano): un titolo che sembra un proverbio di bottega e, insieme, un manifesto per i prossimi 2.500 anni di Napoli.

Il registro corale accende poi sfumature con le firme di autori diversi e giornalisti autorevoli, come Giulia Cannada Bartoli, Emanuela Sorrentino, Francesca Pace, Antonella Amodio, Leonardo Ciccarelli, Fosca Tortorelli, Guido Barendson, Santa Di Salvo, Mariangela Barberisi, Laura Guerra.. Insieme a Pignataro raccontano i loro capitoli con toni diversi, come voci a tavola. C’è chi sceglie la cronaca storica, chi lavora di ritratto, chi fa reportage urbano. Il risultato è una mappa emotiva: leggere Le Pizzerie Storiche di Napoli è come attraversare un quartiere a bocca di forno, tra scampanii, motorini e sentori di basilico, ma senza cartoline.
Fact-checking, non folklore
La scintilla del progetto scocca davanti a un’aberrazione digitale: l’ennesimo post che racconta una favola storta. «C’è chi — dice Pignataro — in cerca di click ha sostenuto che la pizza a Napoli si fosse persa e che l’avessero riportata gli americani». Il curatore quindi ha lasciato parlare le fonti. «Alla fine del Settecento i francesi, durante l’occupazione, fecero un censimento: alcune decine di persone si qualificarono pizzaioli, distinti dai panettieri. Già allora il mestiere aveva una sua specificità: forno più caldo, tempi diversi, organizzazione autonoma. La pizza nasce come alimento poverissimo, sì, ma con caratteristiche precise fin dall’inizio». La Regina Margherita, l’Ottocento, Brandi e il tricolore sono storia, non favole. Il pomodoro non è “prova americana”: in cucina napoletana è di casa almeno dal ’700, e nel 1836 Ippolito Cavalcanti codifica gli spaghetti al pomodoro. Il libro pratica una parola spesso abusata — fact-checking — facendo l’unica cosa che conta: visitare le pizzerie, ascoltare le famiglie, tracciare l’evoluzione di ogni locale “nel corso degli anni, dei decenni”.

La scelta del partner
Il volume è sostenuto da Mulino Caputo. Punto. Il che significa — spiega Pignataro — pagare tipografia, autori, fotografi, riconoscendo dignità a chi scrive («in Italia si paga il progettista d’auto, ma non lo scrittore: noi no»). Ma significa anche non condizionare i contenuti. «Abbiamo voluto un solo partner per sottolineare l’aspetto culturale del volume. E non abbiamo selezionato le pizzerie in base alla farina utilizzata: molti locali non usano Caputo. È una questione di branding, non di marketing. Caputo ha affiancato il suo nome a un’impresa culturale; il resto lo ha fatto — e lo fa — il merito storico dei locali». È una distinzione sottile e necessaria: la pizza come bene comune, non come vetrina sponsorizzata. C’è una pagina che svela questo punto: La differenza di valore è il pizzaiolo. Non è una formula per eleggere idoli; è una pedagogia del gesto. Il pizzaiolo è artigiano specialista: orchestra calore, umidità, tempi, fermentazioni. Non fa pane con il topping: fa pizza.
Dalla Masardona a Julia Roberts: aneddoti preziosi
Il pregio delle storie sta nei dettagli. Il libro li raccoglie con cura, come si fa con i pomodori a fine agosto. Pignataro sorride mentre cita La Masardona: il nome lega il locale a un soprannome di famiglia, eredità di nonna e quartiere, memoria che diventa insegna. E poi il cinema: Julia Roberts che addenta la sua Da Michele e, quel morso, fa il giro del mondo (Napoli come set permanente, la pizza come attrice non protagonista). Sullo sfondo, un’idea semplice: la pizza è mondiale. «Oggi — osserva Pignataro — non è vero che si mangia la pizza buona solo a Napoli. La tecnologia aiuta, lo scambio di saperi pure. Ma il cuore, la grammatica, restano qui».

Ogni capitolo è un ingresso diverso nella città. Da Michele non ha bisogno di didascalie: la coda racconta. Brandi è un balcone sulla storia nazionale (la Margherita, sì, ma anche la costanza quotidiana). Concettina ai Tre Santi e il “folletto della Sanità” sono la prova che tradizione e innovazione possono parlarsi. Port’Alba ha l’orgoglio degli antenati; Starita la pazienza delle dinastie; Gorizia 1916 ricorda nel nome una soglia di secolo. La Masardona porta la famiglia nel nome, Lombardi 1892 mette la data in vetrina perché non tutto si spiega: a volte si tramanda. Tra le righe, la città prende fiato. Il libro non cerca la pizza più fotogenica: cerca l’identità. La pizza napoletana, quella vera, non ha bisogno di effetti speciali: ha bisogno di storie ben raccontate.
Napoli, 2.500 anni dopo: un brindisi di acqua, farina, sale, lievito
Il compleanno è un pretesto felice. Le Pizzerie Storiche di Napoli non è un monumento; è un invito. Si entra in Sant’Antoniello, si ascoltano le parole, si sfogliano le pagine, si esce con una destinazione in tasca — Piazza Bellini a due passi, i Decumani che chiamano — e si scopre che il più contemporaneo dei cibi è un archivio comunitario. L’ultima lezione la affida ancora Pignataro a una frase semplice: la pizza «non è di nessuno e di tutti». Ecco perché un libro corale. Ecco perché la carta. Ecco perché Caputo come compagno di viaggio, ma senza pedaggio sulla rotta. L’oggetto-libro esce dal forno editoriale come una teglia condivisa: ognuno prende una fetta, riconosce il suo pezzo di città, ne custodisce il calore. E se la gusta, custodendosela nella memoria.