Chef

Axel Manríquez: “I piatti tipici a rischio estinzione”. Lo chef cileno che tutela la tradizione

di:
Elisa Erriu
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copertina axel manriquez

Di cosa piangerà il bambino di oggi, tra cinquant’anni? Forse dell’assenza di piatti mai conosciuti, sostituiti troppo presto da hamburger industriali o salsicce confezionate. Per Manríquez, la sfida non riguarda solo le famiglie o lo Stato, ma anche la professione a cui ha dedicato la vita. “I cuochi devono comprendere le proprie radici prima di poter viaggiare”.

Foto di copertina: @Humberto Merino 

Lo chef

A Santiago del Cile c’è uno chef che sembra avere sempre un taccuino invisibile in tasca. Non lo tira fuori durante un servizio, ma nei momenti più improbabili: un funerale, un incontro familiare, una chiacchierata con le nonne del quartiere. Axel Manríquez, 56 anni, tra i maggiori studiosi del patrimonio gastronomico cileno, raccoglie così testimonianze di ricette che rischierebbero altrimenti di dissolversi nell’aria, insieme ai ricordi di chi le custodiva. Il suo lavoro assomiglia a quello di un archivista della memoria culinaria, un “ricercatore di stoviglie” che sa che ogni piatto dimenticato è un frammento di identità perduto.

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Durante le celebrazioni nazionali, quando il paese si stringe intorno alla tavola, Manríquez lancia un monito: alcuni piatti stanno lentamente scivolando fuori dal repertorio familiare. Le nuove generazioni non li conoscono, non hanno luoghi dove assaggiarli né occasioni per imparare a cucinarli. È in questa frattura che, secondo lo chef, si annida il rischio di una vera estinzione gastronomica. Il Cile, rispetto ad altre nazioni latinoamericane, non ha ancora saputo esportare con decisione la propria cucina. Se il Perù ha costruito un impero identitario attorno al ceviche e il Messico ha trasformato tacos e mole in bandiere planetarie, i cileni – osserva Manríquez – hanno preferito guardare altrove. «In passato, quando citavo piatti che mi piacevano, mi rispondevano: “È cibo povero” o “È assurdo metterlo in un ristorante”», racconta a El Paìs. Patate con chuchoca o pesce fritto erano confinati alle mense popolari, mai ammessi nei ristoranti con tovaglie bianche. Oggi fanno capolino nei locali di alta cucina, magari con un tocco più raffinato, ma per lo chef resta evidente un nodo culturale: «I cileni non riconoscono il loro cibo. E non riconoscere il proprio cibo significa non riconoscere la propria identità».

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Secondo Manríquez, la responsabilità non è solo dei consumatori ma anche dello Stato, che non investe nella promozione gastronomica e non considera la cucina parte integrante del patrimonio culturale nazionale. Un’assenza che pesa, perché senza strumenti di valorizzazione istituzionale la memoria collettiva rischia di appannarsi. Un’altra contraddizione cilena si nasconde nelle acque del Pacifico. Il paese possiede una straordinaria ricchezza di prodotti ittici: molluschi rari, crostacei pregiati, alghe che altrove valgono oro. Eppure, spiega lo chef, i cileni continuano a privilegiare carne e tagli blasonati, lasciando che parte di quel patrimonio finisca sottovalutato o addirittura esportato. «Quando nuotiamo e vediamo un cochayuyo o un huiro, lo consideriamo uno scarto. La cultura asiatica, invece, se ne appropria», osserva. Lo stesso vale per le cozze: bollate come “di bassa qualità” perché crescono sulle rocce, quando in realtà rappresentano un’eccellenza. La mancanza di consuetudine si traduce in una dieta ittica limitata a poche specie – nasello, branzino, salmone – ignorando una varietà impressionante. Non è solo un problema di palato, ma anche di filiera: il pesce passa attraverso troppe mani prima di arrivare al consumatore e i prezzi lievitano, rendendo la carne più conveniente. Una beffa per un paese che potrebbe costruire gran parte della sua identità gastronomica proprio sul mare. 

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Negli ultimi dieci anni il Cile ha visto crescere la sua popolazione migrante di quasi il 50%. Questo ha arricchito la tavola, introducendo ingredienti come platani, spezie, peperoncini e tecniche diverse. Ma la contaminazione non ha sempre prodotto un incontro profondo. «I venezuelani continuano a mangiare arepas, i cileni il loro prosciutto», nota Manríquez. Diverso il discorso per la cucina peruviana, che ha lasciato un’impronta più incisiva con il rocoto e altre spezie che oggi si innestano nei piatti tradizionali. Lo chef riconosce anche i progressi tecnologici portati dall’estero: i caseifici ovini della Patagonia, ad esempio, hanno beneficiato dell’esperienza italiana, permettendo al Cile di produrre oli d’oliva e formaggi che lui stesso definisce superiori a quelli europei. L’elenco dei piatti che rischiano la scomparsa è lungo e toccante. Dal pastel de choclo cucinato nell’impasto invece che nella terracotta, alle frittelle di cavolfiore o di fagiolini, fino al "formaggio di zampa di mucca", ormai introvabile nei mercati. Manríquez racconta di averlo preparato per un amico settantenne che viveva all’estero: «Suo figlio mi ha chiamato per dirmi che il padre piangeva mentre lo mangiava». Un piatto può diventare un detonatore di memoria, un legame intimo con un passato che non torna. E allora la domanda diventa inevitabile: di cosa piangerà il bambino di oggi, tra cinquant’anni? Forse dell’assenza di piatti mai conosciuti, sostituiti troppo presto da hamburger industriali o salsicce confezionate.

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Per Manríquez, la sfida non riguarda solo le famiglie o lo Stato, ma anche la professione a cui ha dedicato la vita. «I cuochi devono comprendere le proprie radici prima di poter viaggiare. Qui, invece, è l’opposto», denuncia. Chiede quanti sappiano ancora preparare humitas o empanadas secondo tradizione, quanti abbiano davvero interiorizzato i gesti antichi. La perdita di trasmissione è aggravata dal fatto che molte cucine domestiche non sono più in mano a donne cilene, ma a lavoratrici migranti che cucinano i piatti del proprio paese. Così i bambini crescono conoscendo il ceviche o il tacu-tacu, ma non la casseruola di mais o il caldo de pata. Il risultato è un Cile gastronomicamente arricchito dall’incontro con l’altro, ma anche sempre più distante dalle proprie radici. «Gli immigrati aggiungono sapore, ed è meraviglioso», riconosce Manríquez, «ma siamo arrivati all’estremo, al punto che non sappiamo più preparare un brodo».

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