Marlene si iscrive alla Facoltà di Management Alberghiero e Turistico, ma ne esce segnata. “Era un ambiente militaresco, non educativo. Lì ho subito abusi fisici e psicologici”. Oggi, però, il suo percorso ha preso una direzione differente: è la prima chef donna portoghese premiata con 1 stella Michelin dopo 30 anni, insieme alla collega Rita Magro.
La chef
Non sempre il fuoco che arde in cucina nasce da una passione precoce. A volte, la scintilla si accende più tardi, dopo aver attraversato stanze fredde di diffidenza, tavole apparecchiate di stereotipi e cucine dove la disciplina si confondeva con l’abuso. Marlene Vieira, oggi chef simbolo di una nuova era gastronomica portoghese, ha conquistato nel 2025 la sua prima stella Michelin con Marlene, il ristorante (virgola compresa) affacciato sull’Atlantico, accanto al terminal crociere di Lisbona. Un riconoscimento che pesa come piombo e brilla come acciaio, perché è la prima volta in trent’anni che una cuoca portoghese riceve un tale onore, condiviso con la collega Rita Magro. Dietro quel piccolo emblema rosso e bianco non c’è solo un trionfo individuale, ma la sintesi di un cammino faticoso, segnato da battaglie contro i pregiudizi, contro il sistema formativo violento delle scuole alberghiere e contro un mondo della ristorazione che, ancora oggi, fatica ad accettare donne leader senza travestirle da uomini.

Da bambina, Marlene non amava mangiare. Un paradosso? Forse. Ma è proprio dalla dissonanza che spesso nasce l’arte più intensa. “Il problema era che il cibo era spesso troppo cotto. Le consistenze contano molto per me”, racconta oggi a El Paìs. La rivelazione arriva tra le sale del ristorante Isabel, dove scopre il Roquefort, “con quella potenza e quei livelli di sapore” che le spalancano un mondo. Aveva dodici o tredici anni. Non era una bambina da cioccolata calda e merendine, ma da formaggi erborinati e suggestioni complesse. Eppure, la strada verso l’alta cucina non è stata un viaggio tra casseruole dorate. Marlene si iscrive alla Facoltà di Management Alberghiero e Turistico, ma ne esce segnata. “Era un ambiente militaresco, non educativo. Lì ho subito abusi fisici e psicologici”, ricorda con fermezza. La sua è una denuncia diretta, senza retorica, che mette a nudo quanto la formazione, anziché accompagnare, possa frantumare. “Ci sono tanti talenti che abbiamo perso per colpa di questo sistema. La disciplina sì, ma non a costo della dignità”.

Oggi Marlene è una delle chef più influenti del Portogallo. Ma il percorso che l’ha portata fin qui è costellato di domande taglienti come coltelli. Perché le donne faticano così tanto a emergere in cucina? “La società non vuole donne leader. Non siamo percepite come ‘rockstar’, non abbiamo l'immagine glamour che il sistema si aspetta”, dice. E ancora: “Se vai a guardare i ristoranti premiati, quasi sempre il numero due è una donna. Ma il numero uno? Un uomo”. Il mondo della ristorazione non fa sconti, ma alle donne presenta un conto ancora più salato. Quando Marlene diventò madre, durante un colloquio di lavoro le chiesero come avrebbe gestito la figlia. La sua risposta fu secca: “Non è un vostro problema”. Ma quello sguardo giudicante era già una porta chiusa. Così decise di aprire la propria porta, il proprio ristorante, e il proprio modo di intendere la cucina.

“Essere padrona del mio spazio significava essere padrona della mia creatività”, spiega. E con tre ristoranti — Time Out Market, Zunzum e Marlene, — la chef ha riscritto le regole, prendendo il controllo di una narrazione troppo spesso declinata al maschile. La maternità non è stata un ostacolo, ma nemmeno un’epifania romantica. È stata un terremoto. “I primi mesi con mia figlia mi sono dimenticata di tutto, poi ho avuto paura. Pensavo che diventare madre significasse perdere la libertà. Mi sentivo in prigione”, confessa. E mentre suo marito João apriva Sala, anch’esso stellato, Marlene si ritrovava a casa con un bambino e i sogni messi in standby. Ma non si è fermata. Senza sapere esattamente come avrebbe gestito tutto, ha lanciato due ristoranti. È questo il sapore della resilienza: dolce, amaro e impastato di audacia. La sua cucina non è solo tecnica, è memoria, emozione, provocazione. Il cibo non è nutrimento, è linguaggio, è evocazione. “Mangiare ha un lato sensoriale ed emotivo molto più forte del lato fisico. È come la musica: riporta ricordi, evoca persone. Ma a differenza della musica, lo senti anche con il corpo”. Da buona osservatrice (oltre che cuoca), Marlene non risparmia critiche alla qualità del cibo servito nei ristoranti tradizionali. “In Portogallo è raro mangiare del buon riso. È un peccato, siamo il secondo paese al mondo per consumo pro capite. Ma molti cuochi pensano di essere bravi solo perché hanno imparato a casa, senza comprendere davvero la tecnica”.

Per lei, la differenza sta nella chimica, nei minuti, nei dettagli. Perché il riso, come la vita, cambia consistenza con un solo soffio di tempo. E poi c’è la cucina portoghese, che Marlene difende e celebra, ma senza sconti. Ricca, sincera, ma povera di varietà vegetali e controllo tecnico. Quello che salva tutto, a suo dire, sono le erbe aromatiche: “Gli italiani e gli spagnoli non le sopportano, ma danno una spinta in più, un tocco identitario. Io non posso più vivere senza coriandolo”. La stella Michelin non è mai stato il suo obiettivo primario. “Non ho iniziato questo percorso per ottenere una stella. Il mio obiettivo era la libertà creativa e la sostenibilità dei miei ristoranti. Il riconoscimento è arrivato meno di dieci anni fa come una possibilità, non come un fine”. Una visione pragmatica e poetica insieme, come la sua cucina: un equilibrio tra necessità e sogno. Una delle sue storie più curiose? Il giorno in cui cucinò per Emmanuel Macron mentre saltava la festa di compleanno della figlia. “Gli dissi che dovevo correre al ristorante per un problema. Macron poi le scrisse un biglietto di auguri”, ride.