Antonio Ziantoni rafforza il suo linguaggio culinario improntato alla pulizia per lasciare spazio a una purezza quasi archetipica del gusto. Ad affiancarlo, una squadra di giovani professionisti innamorati del mestiere che fanno di Zia Restaurant uno dei fine dining più quotati di Roma.
Zia Restaurant
Il ristorante
“Vi spiace se chiamo Biscotto?” Ci chiede Antonio Ziantoni quando dopo pranzo ci intratteniamo a chiacchierare in sala da Zia e arriva, dall’appartamento del piano superiore, l’adorabile barboncino che ormai segue ovunque lo chef e la compagna Ida Proietti.
È un giorno infrasettimanale e ai tavoli del ristorante di via Mameli, appena fuori dall’intreccio dei vicoli di Trastevere; è un bel sold-out di giovani, in piccola parte turisti, visibilmente appassionati di cucina, molto interessati alle risposte dei camerieri ai loro quesiti. Un segnale allettante, il tutto in una atmosfera briosa, carica di positività; arredi di una sobrietà ricercata, che si concedono il vezzo di qualche elegante nota eccentrica di arte e design, ma sempre in un mood lineare e pulito.
Il servizio in sala scorre amabilmente; Ida, da undici anni compagna di Antonio, si è laureata in scienze dell’educazione e dopo qualche tempo dedito all’insegnamento si è dedicata all’ospitalità, fino al 2018, quando ha aperto Zia insieme al compagno chef, dove si occupa dell’accoglienza.
La direzione è invece affidata alla competenza e alla cordialità di Valentina Bivona, custode della cantina, che conta circa seicento etichette, e infaticabile ricercatrice di piccole aziende vinicole da valorizzare e proporre con attraenti racconti in sala. Molto attenta e pronta nel fornire informazioni agli ospiti, come ad esempio rispondere alla nostra curiosità su una pianta molto particolare posta in fondo alla sala con il suo preciso nome scientifico.
Anche solo a incontrarli per poche ore, questi giovani professionisti trasmettono un lindore diffuso, si percepisce il loro senso di appartenenza a questo luogo, il loro legame e la determinazione entusiastica che li accomuna.
Antonio, trentaseienne di Vicovaro, piccolo centro della campagna romana, oltre a ricevere la stella Michelin, è stato premiato dalla Rossa come miglior giovane Chef 2021, ma non per questo si è perso in fervori autocelebrativi. Anzi continua incessante il suo lavoro di ricerca, di definizione della propria identità in cucina, indaga l’essenzialità in modo assiduo per scovare nella materia la sua espressione migliore.
Attraverso il suo bagaglio di esperienze che l’hanno portato in giro per il mondo, fra George Blanc e Gordon Ramsey, per poi fermarsi quattro anni da Anthony Genovese, ha impostato una visione di autentica sintesi, un linguaggio culinario improntato alla pulizia per lasciare spazio a una purezza quasi archetipica del gusto.
I piatti
Una friabilità maliosa caratterizza il cannolo dalle scale di amaro ripieno di arancia amara, battuto di olive nere, maggiorana.
Quello che sembra un bocconcino di mozzarella che affiora dal suo siero è in realtà una sfera di latte di capra, che al morso sprigiona il suo interno liquido.
I datterini del Piennolo si spalleggiano fra dolcezza e acidità, la versione rossa declinata in chutney e la versione gialla in crema, custoditi in una tartelletta con olio extravergine di oliva.
Il kiwi è marinato al Benefort, un amaro valdostano che racchiude l’aromaticità di una ventina fra erbe, radici e fiori, completato da una composta di bergamotto e una fogliolina di salvia.
Quasi la sintesi compiuta del concetto di cucina di Ziantoni, la pancia di maiale marinata quindici giorni e cotta lentamente al barbecue per otto ore è l’immagine pura, nuda e cruda del buono, stilema della gola, presentata in perfetto minimalismo, che la stessa gestualità di fruizione richiede. Si arrotola completamente nella forchetta e si gusta in un sol boccone per un godimento ancestrale.
A questo punto, il reboot palatale è a carico dell’aspic di peperone rosso e foglia di dragoncello, che produce un piacevole picco di dolce pungenza.
L’ostrica del Delta del Po, splendidamente carnosa e dalla salinità melliflua, è servita su una crema di cavolo verza, insalatina di scalogno e i nervetti di vitello a rinvigorire la masticazione. Una foglia di broccolo romano grigliata, e l’estrazione di indivia versata al tavolo, forniscono in chiusura una raffinata nota amarognola.
Il pane, a lievitazione naturale, include nell’impasto otto specie di semi.
A contenere la tartare di pecora è una sorta di taco di yuba di latte di soia, che mentre bolle coagula in superficie creando una membrana sottile, che poi viene essiccata e passata al cannello. Una croccantezza sottile e impalpabile, che insieme alla battuta di carne, alterna le nuances asprine, amaricanti, sapide della salsa bernese, della pimpinella, mandorle in salamoia, fragoline di bosco, jus di ossa della pecora.
Il capitone viene marinato per cinque ore, affumicato con legno di melo e ulivo, poi laccato con una glassa di miele, pomodoro del Piennolo, saba ed erbe aromatiche, per essere poi cotto sulla gratella. Da solleticare, ora con l’amaro e l’acidulo dell’estrazione di dragoncello, ora con la soavità della confettura di cipolle rosse. Una carne con una succulenza e corposità e da sollucchero.
Floridi di sapore, e per questo seduttori seriali, i ravioli scarlatti, per via della sfoglia con polvere di rapa rossa, sono ripieni di ragù di lepre, olio al ginepro, irrorati del fondo di cottura della lepre
Il petto di faraona, dotato della sua pelle, viene rivestito di una foglia di vite, precedentemente tenuta in salamoia, presentato con il suo fondo di cottura, si connette magistralmente con la salsa di scorzonera e rapa bianca, scrigno di amari e note terrose.
Coadiuva nel raggiungimento dell’acme gustativo una polenta mantecata con fontina, frattaglie della faraona, tartufo nero pregiato d'Abruzzo.
Ma anche il pane di frutta disidratata, albicocche, fichi, uva passa è in sintonia armonica con la faraona e si può dire che apra ufficialmente alla parata di dolci e dessert, curati dal ventinovenne, già premiato in più occasioni, pasticcere Christian Marasca. Anche lui transitato dal Pagliaccio, dopo il periodo didattico all’Alma. Il pre-dessert, concepito in modalità ossimoro, ha totale assenza di zucchero, se non quello naturale contenuto nel pompelmo rosa della granita dove sono presenti anche champagne, bitter e dragoncello.
Il babà dalla sofficità puntuale è bagnato in rum, anice stellato, cannella, vaniglia e attanaglia nel taglio longitudinale una quenelle di crema chantilly con vaniglia di Tahiti e vaniglia del Madagascar. Sorprendente il finale acidissimo con il mini aspic di verjus, il succo d'uva acerba che già Plinio il Vecchio menzionava come digestivo.
Si può dire che da Zia ormai sia diventata un rito la brioche sfogliata all'italiana, con burro e vaniglia del Madagascar; raffinata, dall’allure elegantemente rétro sull’alzatina vintage, come se fosse appena uscita dalla dispensa dia tante Léonie a Combray. Da scarpettare nella crema inglese servita a parte, ma poi, vista la dimensione, da farsi incartare per ritrovarla, sempre fragrante, a colazione la mattina successiva a casa.
A chiudere l’angelico fiordilatte con il latte dell'Azienda Agricola Salvaderi di Lodi, appena aromatizzato con vaniglia del Madagascar
Indirizzo
Zia Restaurant
Via Goffredo Mameli n 45 – 00153 Roma
Tel. +39 06 23488093
Sito web