Aurora Storari si racconta: la pastry chef di Hémicycle, una stella Michelin, originaria di Roma, ha da poco inaugurato Aura, dessert dining, una dimensione intima che rispecchia la sua anima errante. Il dolce qui viene esaltato attraverso abbinamenti desueti: boccone dopo boccone si giunge in un universo eclettico, dai paesaggi sorprendenti; le componenti, variegate e nobilitate, coesistono grazie all’ingegno.
L’intervista
Aurora Storari, classe 1992, originaria della Città Eterna, cattura facilmente chiunque abbia davanti con il suo spirito grintoso. Poliedrica, volto dell’alta gastronomia, prima di tutto chef, nonché maestra dell’arte dolciaria da Hémicycle (1 stella Michelin, dove lavora accanto allo chef e compagno Flavio Lucarini), ha inaugurato Aura lo scorso luglio, un luogo neutro, dove due mondi apparentemente lontani s’incontrano e si fondono: l’uno ha bisogno dell’altro, tant’è che se circoscritti non riuscirebbero a sopravvivere in uno scenario simile.
Aura non è solo dessert, ma un vero e proprio percorso, come ne descriveresti il cuore e l’essenza? Com’è nata l’idea?
Sentivo dentro la necessità di esprimermi a 360 gradi, quindi l’idea mi balenava in testa da parecchio. Io sono nata, professionalmente parlando, ai fornelli; certo, ho anche frequentato svariati corsi di pasticceria, ma non mi sono soffermata esclusivamente su quell’ambito, ho semplicemente appreso le nozioni base, per il resto mi reputo autodidatta. Ciononostante, ho sempre pensato di non volere abbandonare completamente la cucina, d’altronde avvertivo di non poterne fare a meno, mi scorreva nelle vene. Una volta arrivata a Parigi non sapevo dove collocarmi, la piazza oscillava fra i mostri sacri e un rigorosissimo classicismo.
Durante la mia esperienza a Le Clarence ho cominciato a mettere insieme i pezzi, a pormi delle domande, fra il ricco profumo dei croissant al burro appena sfornati e il brusio della quotidianità della Ville Lumière. Era come se in quel frastuono riuscissi a distinguere delle voci, le quali mi invitavano calorosamente a trovare la mia strada. Ogni sussurro m’ispirava a perseguire i miei sogni caleidoscopici. Mi sono ripromessa di non lasciare più che determinati modelli influenzassero le mie scelte, inoltre ho definitivamente smesso di paragonarmi agli altri. Ho finalmente deciso di investire su me stessa e sulle mie capacità, focalizzandomi su ciò che davvero potevo donare al prossimo. Questa visione concreta rispecchia la mia filosofia e il mio spazio personale all’interno di Hémicycle.
Pensi che ci sia qualcuno che ti abbia stimolata maggiormente durante la formazione?
La persona che più di tutte mi ha letteralmente aperto la mente è stato il mio insegnante Gianluca Fusto, avevo appena vent’anni quando un giorno si presentò in aula e ci fece preparare un piatto a base di ostriche e cioccolato. Rimasi senza parole, io che avevo pensato per una vita alla pasta frolla e alle tartellette. Lui ha illuminato la mia prospettiva, trasmettendomi un principio fondamentale per crescere in questo ramo di nicchia: i dolci si possono realizzare con qualsiasi ingrediente, l’importante è tener contro della tecnica.
Guardandomi intorno poi mi sono resa conto che ci sono dei posti straordinari, come il Coda a Berlino di René Frank, nel quale il menu degustazione è ideato interamente da un pastry chef, e funziona! All’epoca non avevo i mezzi per sviluppare il progetto, oggi dopo aver esercitato in alcuni fine dining, ed essendo braccio destro del mio compagno, Flavio Lucarini, nel nostro locale stellato, confermo che si può sperimentare e avere successo allo stesso tempo!
Qual è la tua filosofia?
Sebbene non abbia inventato io il concept, posso affermare con sicurezza che il modo in cui concepisco e analizzo ogni aspetto di una portata è solo mio. Libera: è così che identificherei la proposta, un ibrido dettato da ciò che mi consigliano il palato e la ragione. Non opero per provocare o imporre, piuttosto improvviso, senza assecondare schemi predefiniti, possiamo dire che faccio freestyle, seguo il flusso in maniera spontanea, come nel rap, lasciando posto alla creatività, ponderandola. Non traggo spunto dai colleghi, ognuno di noi ha un bagaglio culturale diverso, io sono ‘brutal’ nell’esecuzione, parto dal gusto, da quello che ho fra le mani in quel momento; ciò significa che faccio uscire il cuoco che è in me, la pasticceria diventa il mezzo con cui produco.
Che tipo di clientela richiamate? Avventori curiosi o specialisti in cerca della novità? E come reagiscono solitamente all’assaggio?
La clientela è mista, ci sono gli habitués, amanti della ristorazione di classe, i fan del fine pasto, e coloro che vengono per rimanere piacevolmente stupiti e destabilizzati; molti, infatti, immaginano di assaporare prelibatezze zuccherine, poi man mano capiscono cosa li aspetta. Innanzitutto, mi scrutano aldilà del bancone, hanno l’opportunità di osservarmi dal vivo, mentre spiego loro ogni passaggio fino al raggiungimento del risultato finale. Inoltre, parlano fra di loro e si confrontano. Questa strategia è nuova anche per me, all’inizio ho dovuto familiarizzare con un approccio del tutto nuovo, stare al centro dell’attenzione non è facile.
Quale piatto ti rappresenta al meglio? E come scegli la materia prima?
Il primo piatto è un must, dissacrante, mi diverte molto, soprattutto quando lo servo ai locals, per loro è fuori contesto, anzi ‘bizarre’. In questo caso mi occorre la texture tipica della pasta di semola, un elemento di supporto, una tela bianca da completare, come possono esserlo anche la sfoglia o la choux. Successivamente vado a mantecarla con una ganache e l’accompagno con un gelato come se fosse una salsa. Per quanto riguarda la materia prima è molto semplice, scelgo quella di stagione, sto appunto attuando un terzo cambio in vista dell’imminente autunno.
Altra chicca degna di nota è un parfait, mousse ghiacciata, al nero di seppia, cioccolato bianco, garum di alici in alternativa al sale, e cocco cotto al barbecue. Agli avventori sembrerà di mangiare del pesce, una seppia arrostita per l’esattezza, che nell’effettivo non c’è; il colore e la consistenza ingannano i sensi e lasciano increduli.
Oppure il carciofo alla giudia presentato sottoforma di cornetto, passato nel caramello, nel cuore mole di prugne, peperone crusco e in superficie quenelle di gelato affumicato al whisky. Pietanze fluide e immediate nella comprensione, inediti che più di tutti mi caratterizzano, da gustare ad occhi chiusi.
Pensi che Parigi sia adatta ad accogliere il format?
In realtà penso che non ci sia una città maggiormente vocata all’iniziativa rispetto ad un'altra. Sicuramente ce l’ho messa tutta per introdurmi fra le grandi maison pittoresche e les palais, dalle facciate adornate con decorazioni artistiche, colonne e balconi. Ho rischiato andando controcorrente, non ho aperto una boulangerie o una boutique che offre solo monoporzioni scenografiche. Ho scelto un messaggio coerente da diffondere che coincida con l’opera. Se uno ha un’intuizione buona può affinarla ovunque, Londra, Berlino, Barcellona.
Come definiresti il servizio di Aura?
Lo definirei non incravattato, né formale né informale, ma unico nel suo genere, totalmente open, sono io a gestire il complesso, mentre la sala mi sostiene. Si tratta di un gourmet, che ha visto la luce dopo mesi e mesi di prove, la carta è stata abbozzata interamente a mano da un ragazzo di Roma, con colori alimentari, che poi si ritrovano a tavola, le stoviglie provengono da un’artigiana che lavora il vetro, le posate sono di Hermes, vintage. Molteplici fasi di riflessione ci hanno portato fin qui. Gli standard e i dettagli rimangono parecchio elevati, in fondo il mio angolo è inserito in una cornice prestigiosa.
Quanto è importante il beverage?
Moltissimo. Se ne occupa Martina, l’assistente sommelier di Hémicycle. Non abbiamo una lista dei vini suddivisa per regione, bensì un catalogo atipico di bevande, smembrato in categorie.
Dopo aver omaggiato gli ospiti del cocktail di benvenuto è nostra premura suggerirgli cosa bere rispetto alle loro preferenze percettive, acido, amaro, sapido. I succhi sono fatti da noi, ad esempio con ciò che troviamo di fresco, come anche le fermentazioni; raccomandiamo gli analcolici, il caffè, dai sentori erbacei in inverno, tostati in estate.
Quali aspettative hai per il futuro e che cosa diresti alla generazione che si sta specializzando nel settore?
Stanno avvenendo dei cambiamenti rilevanti, anche se lentamente, l’inversione di marcia è palese. Adesso non è cruciale la forma, l’estetica, ma il sapore. È indispensabile interrogarsi, incuriosirsi: cosa succederebbe se utilizzassi della farina di mandorle bruciata al posto di quella tradizionale in una ricetta? Ricercare poi è imprescindibile, il prodotto giusto va individuato in funzione del periodo dell’anno, non è possibile vedere i frutti rossi a dicembre.
Comunque, spero di essere un punto di riferimento per chi è alle prime armi, non bisogna avere paura di dire la propria, di assumersi delle responsabilità. È normale non piacere a tutti, non cercate l’approvazione, non tentate di copiare chi è arrivato, diventate competenti nel vostro stile uscendo dalla comfort zone, anche se inizialmente non vi sentirete capiti, io ci sono passata. Essere bravi non vuol dire essere conformi, ma autentici e determinati per migliorare sé stessi.